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30 dicembre 2009

Napoleon: recensione parte 6

Riprendo la recensione del libro Text dello Stanley Kubrick's Napoleon, con il trattamento che Kubrick ha concluso il 2 novembre 1968, presentato qui senza introduzione ma con le note di Geoffrey Ellis come già era stato fatto per i dialoghi con Felix Markham.

Una data di chiusura del testo così prematura potrebbe indicare, più che un vero trattamento, il tentativo da parte di Kubrick di mettere ordine tra il materiale accumulato: mi immagino il regista avere di fronte decine di citazioni dalle lettere dei personaggi storici, estratti da libri con descrizioni delle istituzioni francesi, tutto sparpagliato sulla scrivania, a spostare i pezzi avanti e indietro come in un domino per intravedere lo svolgersi delle scene del suo film. Ed effettivamente, leggendo il testo, a partire dal semplice concatenamento di questi elementi, sprazzi di film affiorano dalle pagine.

Dopo una partenza folgorante – "For much of the time he was carried in his mother's body, Napoleon could hear the sound of war," scrive Kubrick come incipit – le scene che seguono elencano gli episodi salienti della prima parte della vita di Napoleone e sono poco più che un riassunto. Poi però, d'improvviso, entra in scena Josephine e il trattamento prende ritmo: Kubrick inizia ad alternare le scene di politica e strategia militare (le sommosse parigine post-rivoluzione, il contenimento della flotta inglese e la campagna d'Italia) con momenti intimi tratteggiati dalle appassionate lettere che Napoleone scrive all'amata. La semplice giustapposizione di eventi pubblici/privati è sufficiente per raggiungere l'obiettivo che Kubrick si era appuntato in una nota scritta all'inizio del progetto: "There probably will be more than ample opportunity to make all the psychological points that can possibly be made, tied into the main events of the story. Unlikely to need many scenes of their own to be there just to make psychological points."

Significativo in questo senso è quanto la relazione tra Napoleone e Josephine inizi subito in modo dolorosamente asimmetrico: alla fine del loro primo incontro Kubrick scrive con ironico distacco: "That night Napoleon went to bed filled with the romantic thoughts about Josephine. Josephine went to bed with Barras." Bastano questi pochi passaggi per garantire già l'immedesimazione emotiva del pubblico con Napoleone.

"I awake intoxicated with thoughts only of you," cita Kubrick dalle lettere di Napoleone qualche pagina più avanti, a cui fa seguire crudelmente una fredda e distante lettera di Josephine a un amico: "The question is am I in love? Unfortunately I cannot say that I am, but the worst of it all is that I find myself in a profound state of indifference – lukewarm would be the best way to put it." Josephine si dedicherà invece con passione alla sua relazione con il Luogotenente Hippolyte Charles, un damerino di bell'aspetto. Conoscendo ciò che Kubrick leggeva all'epoca, sono convinto avesse individuato qui echi del Girotondo schnitzleriano, in cui tutti rincorrono l'amore di qualcun altro in una sorta di frenetica e triste catena emotiva-sessuale.

Per meglio mettere a fuoco la psicologia di Napoleone, invece che di una scena appositamente costruita, Kubrick si serve di una lettera del finanziere Hamelin con cui sarà stato sicuramente d'accordo e che suona infatti come il suo punto di vista: "I felt extremely distressed at the thought of this young general – already in the aura of a glory which reflected on his wife – in a losing contest with a little dandy who had little to recommend him except a pretty face and a hair-dresser's elegance."

L'insoddisfazione emotiva di Napoleone è una costante in tutti i primi capitoli e pone le basi per la traiettoria di caduta che avverrà in seguito. "My husband doesn't love me – he worships me," riprende ancora Josephine, "I fear he will go mad with love." L'obiettivo del regista è quanto mai chiaro: osservare come il virus dei sentimenti, delle emozioni, inizi a contaminare il cervello di Napoleone rovinandone la splendida geometrica efficacia da stratega militare. Ragione vs. Sentimento, come sempre in Kubrick.

Nei capitoli successivi la lettura risulta appassionante semplicemente grazie al resoconto degli eventi della vita di Napoleone: la campagna d'Egitto, il ritorno in patria, il Consolato, l'incoronazione a Imperatore. Aveva ragione Kubrick: Napoleone poteva non essere il migliore o il più onorevole uomo nella storia, ma di certo il più interessante.

Si percepisce chiaramente la passione di Kubrick per il soggetto: il regista parla delle riforme politiche e amministrative intraprese dall'Imperatore con lo stesso entusiasmo che spende per raccontarne le gesta eroiche in battaglia. E pare anche di intravedere una netta somiglianza tra i due quando scrive, con evidente ammirazione, "France was beginning to feel the impulse of a unified will and a controlling mind working at top speed – often 18 hours a day."

A volersi divertire, è facile proseguire il parallelo tra regista e Imperatore, specialmente leggendo in controluce la descrizione di come Napoleone passasse la giornata: lo riporto integralmente perché mi pare la miglior descrizione mai fatta – ma di Kubrick.
He rose at 7:00 am, to read reports and to dictate letters until 9:00 am. [...] He was always busy with paperwork, even in the field.
It was estimated that he dictated about 80,000 letters during his 15 years of rule. When going through his mail and reports, he would deal immediately with urgent matters, place less important papers in one stack, and throw everything else on the floor. He would dictate so rapidly that his secretary could only make notes and would then have to attempt a fair reconstruction of what was said. But Napoleon would carefully re-read each letter and make corrections before he signed them. His own handwriting was so illegible he frequently could not read it himself.
He rarely spent more than a quarter of an hour at meals and always drank an indifferent Chambertin. He preferred eating dinner alone, and, after the food was set out before him, he would often eat dessert, meat, soup in no special order.
The rest of his day would be spent at his desk or in conference, and he was usually in bed by 10:00 pm, though he would sometimes rise and resume work in the small hours. His personal secretary was always to be present unless he was sent out of the room. He was never to speak unless he was asked a question and he was always to be ready to commence dictation. In the pauses between dictation, he was supposed to make fair drafts of previous letters. He was expected to present himself at any hour of the day or night when Napoleon might awake to commence work.
Napoleon got surprisingly high marks from his personal servants, his aides, his secretaires, and his valets. In their experience, he was naturally kind and considerate, if he got into a rage it was quickly over and he usually made amends.
There were evenings when he would sometimes stroll incognito through the streets of Paris in civilian dress [...]
The charm which Napoleon could turn on at will was used to fortify his mastery over men's minds. [...] His surest touch was with his soldiers. His constant reviews, and his presence on the battlefields, enabled him to establish an extraordinary degree of personal contact, particularly among the Guard. Napoleon played on the emotions of glory, adventure, and comradeship with the skills of a sorcerer. Wellington reckoned the moral effect of Napoleon's presence with his army was worth 40,000 men.
Napoleon's only relief from tension was his love of scalding hot baths, which he took as many as three times a day, and would sit in for up to two hours at a time. His servants had strict instructions to keep the tub filled and ready twenty-four hours a day.
Pare perfino di percepire solidarietà per questa presunta bizzarria.

Il trattamento riprende ad alternare strategie di guerra e scaramucce sessuali, che continuano a interessare Kubrick così tanto da dedicare metà pagina al mancato incontro tra Napoleone e M.lle X, un'innominata attrice di grido che l'Imperatore si è fatto portare nella sua camera da letto ma a cui non dedica tempo per non sottrarlo alla lettura delle sue carte. Ecco una scena per realizzare quel che il regista aveva detto a Jay Cocks nell'intervista "Degrees of Madness" di Time: "'Molta gente non è consapevole che alla vigilia di una battaglia Napoleone passava la maggior parte del tempo sulle scartoffie.' Di tutti i registi del mondo, – concludeva Cocks – Kubrick è forse il solo che possa fare un film epico a partire da delle scartoffie."

La traiettoria discendente di Napoleone inizia con i problemi in Portogallo (indeciso se seguire l'Inghilterra o la Francia), in Spagna (guerriglia a causa della sostituzione dei sovrani imposta dall'Imperatore) e soprattutto con le macchinazioni di Talleyrand che gettano le basi per il voltafaccia russo e la catastrofe dell'inverno 1812 con la decimazione della Grande Armée. Come ci aspettavamo, questi eventi seguono in parallelo il lunghissimo e doloroso divorzio da Josephine, e di nuovo il lettore (lo spettatore) si trova a comprendere lo stato d'animo di Napoleone in modo chiaro, nonostante nessuna frase (scena) dica esplicitamente qualcosa sui suoi pensieri.

Che il trattamento non sia definitivo lo si capisce anche da come, in queste scene, Josephine risulti esageratamente attaccata a Napoleone, quando l'avevamo lasciata un paio di capitoli prima allegra e distratta tra le braccia dei suoi amanti. E' probabile che nella sceneggiatura ultimata il passaggio da "tepore" a "ardore" fosse stato meglio calibrato. Simile buco si rintraccia poco più avanti per l'entrata in scena di Maria Luisa d'Austria, seconda moglie di Napoleone e madre del suo erede, che appare e scompare senza lasciare molte tracce.

Il mistero della relazione tra Napoleone e Josephine, o meglio del personaggio Josephine stesso, permane anche nella sequenza, tragica e toccante, della sua morte tra i lustri di un'aristocrazia in declino: per non distogliere attenzione ai suoi ospiti e per sentirsi ancora amata e importante, Josephine trascura la sua salute fino a perderla del tutto. Napoleone, in esilio all'Elba, saprà della notizia dai quotidiani e passerà un'intera giornata chiuso nelle sue stanze.

Alla fine del capitolo Elba Napoleone si risolve a rischiare un ultimo tentativo per tornare al potere: il trattamento di Kubrick, pur semplice, non è scevro da effetti drammatici quando riporta prima di un fade-to-black il commento della madre di Napoleone alla notizia: "'You were not made to die on this island,' she said." Ugualmente grandiosa la scena in cui Napoleone si para innanzi ai suoi ex-soldati a petto scoperto gridando "If there is any soldier among you who wishes to kill his emperor, he may do so. Here I am." Un singolo proiettile avrebbe posto fine all'avventura – scrive Kubrick – ma il reggimento restò impietrito, ipnotizzato da questa visione di gloria passata. Gli uomini infine ruppero i ranghi e circondarono Napoleone al grido di "Vive l'Empereur!"

Influenzato ancora una volta dalle emozioni – la gloria per il suo ritorno a Parigi – Napoleone sbaglia il suo giudizio sul Congresso di Vienna e non prevede le mosse dei nemici; di nuovo, offuscato dall'odio verso Wellington, il comandante delle truppe inglesi, sottostima le forze dell'avversario e, ancora, tormentato dal dolore alla vescica che lo accompagnava da anni, ritarda la preparazione della battaglia e l'affida al Maresciallo Ney che non si rivelerà all'altezza. La carica dei Prussiani spazza via l'esercito francese colpendolo al fianco: Waterloo è arrivata. "One must not forget that I am only a man, after all," ci ricorda Napoleone dalle sue memorie.

Inevitabile a questo punto che il trattamento faccia seguire alla sconfitta militare e politica una delicata scena intima, in cui Napoleone passeggia nel giardino di Malmaison con Hortense, la figlia di Josephine: tra i verdi cespugli di una fresca sera estiva, Napoleone si lascia andare all'onda dei ricordi e sussurra: "I still cannot believe she is not here. At any moment, I expect to see her appear around the corner with an armful of flowers. My poor, poor Josephine."

Quando dopo l'epilogo di St. Elena il trattamento si avvia alla conclusione, pare vedere la macchina da presa avvicinarsi alla lapide tombale di Napoleone mentre la voce narrante racconta come gli inglesi fossero indecisi su cosa dovesse esserci scritto; Kubrick chiude la storia con questa frase: "There was a dispute and in the end, the tomb was left nameless" ed è inevitabile sentire il lamento del violoncello che chiude, con la stessa malinconia, Barry Lyndon.

Il film realizzato come ripiego per l'irrealizzato Napoleon ha molti debiti con questo progetto: la sibillina nota "You need distance" che si leggeva tra le prime carte acquista un significato molto chiaro se letta pensando a Barry Lyndon. Il gioco di Kubrick di dosare attentamente successi e fallimenti saltando da un personaggio all'altro contribuisce anche in questo trattamento a schiacciare tutte le figure storiche in un tempo assoluto e osservarne le gesta da una prospettiva siderale.

Una lettura splendida, questo trattamento, utilizzabile anche come Bignami della vita di Napoleone, ma soprattutto come una bozza per un film appassionante, ricco di tutti gli ingredienti necessari: come aveva scritto Kubrick a margine delle sue letture, "It has everything a a good story should have. A towering hero. Powerful enemies. Armed combat. A tragic love story. Loyal and treacherous friends. And plenty of bravery, cruelty, and sex."

Le altre recensioni:
  • Impressioni iniziali: spacchettando i libri.
  • Prima parte: i tre libri più piccoli.
  • Seconda parte: sei saggi del libro Text.
  • Terza parte: i dialoghi tra Kubrick e Markham.
  • Quarta parte: corrispondenza, appunti e cronologia.
  • Quinta parte: iconografia e piano di produzione.
  • Settima parte: lo script del 1969.
  • Ottava parte: ultimi due saggi di Text.
  • Conclusione: recensione finale sull'intero libro.
  • 29 dicembre 2009

    Mostra delle foto di LOOK a New York (2)

    Recensendo la mostra "Only in New York" che raccoglie una serie di scatti realizzati da vari fotografi per la rivista LOOK, il New York Times fornisce una galleria di scatti tra cui compaiono il pugile Rocky Graziano, immortalato da Kubrick nel 1950, e il nightclub Copacabana, fotografato nel 1949.



    Questo l'estratto dell'articolo che parla delle fotografie di Kubrick:
    Among the talents Look attracted was a young Stanley Kubrick, who sold his first photograph to the magazine at the age of 16 and continued to work for it for five years. In his images of prizefighters and showgirls, New York is a noirish, not-quite-believable backdrop, as it was in Kubrick’s much later film “Eyes Wide Shut.”
    Even his sunnier assignments have a suspenseful edge. He was one of three photographers assigned to cover the spectacle of a Midtown billboard painter working, high up on a scaffold, from a live model. The other shooters focused on the woman and the product, the Peter Pan bra company’s “Merry-Go-Round” (slogan: “The secret’s in the circle!”). Kubrick took close-ups of the gobsmacked people on the ground.
    Back When ‘Look’ Meant a Magazine, Karen Rosenberg, The New York Times 25.12.2009

    27 dicembre 2009

    Terry Gilliam e Arancia Meccanica

    In un'intervista promozionale per il suo ultimo film, Parnassus: l'uomo che voleva ingannare il diavolo, Terry Gilliam ricorda i suoi esordi come artista grafico e ci regala questa chicca d'epoca, che personalmente non avevo mai sentito.
    What's also interesting - at that point in my life, I came back from holiday with my wife and found a letter from Stanley Kubrick. It turned out he wanted me to do the opening credits for A Clockwork Orange - but by the time I got back, it was too late. So, that was my career with Kubrick: over before it even began!
    Nel 1971 Gilliam impazzava alla TV britannica con i Monty Pyton e il loro Flying Circus, uno show surreale con fulminanti battute di sublime humour inglese.

    La predisposizione all'assurdo di Gilliam e i suoi collage di ritagli in stile vittoriano con piedi giganti e poliziotti travestiti avrebbero sicuramente fatto faville sui temi di Arancia Meccanica – pur senza togliere nulla all'ottimo stile cartoon di Philip Castle.



    The wild imagination of Terry Gilliam, Aaron Graham, Uptown Magazine 24.12.2009

    23 dicembre 2009

    Napoleon: recensione parte 5

    Pensavate che avessi finito col librone, eh? No, no, sono sempre lì a leggerlo. Se non altro i 500 Euro garantiscono una lunga durata. Ecco quindi due nuovi libri dello Stanley Kubrick's Napoleon della Taschen.

    Reference
    E' un album che presenta le fonti iconografiche raccolte da Kubrick per iniziare a ragionare sull'aspetto visivo del Napoleon. L'album presenta una selezione dalle pagine di due raccoglitori ad anelli sui 24 presenti nei bauli dell'archivio. Le fotografie erano ordinate più o meno per argomento: si trovano quindi una serie di ritratti di Napoleone, poi scene di vita familiare e mondana dell'epoca, poi dipinti e stampe dalla campagna di Russia e così via.

    Come per le note sui costumi, le fotografie alle pagine sono state realizzate fronte/retro, in modo che sfogliando questo album si ha l'impressione di sfogliare i veri raccoglitori ad anelli di Kubrick.

    In un paio di occasioni si ritrovano disegni che devono aver ispirato alcune scene di Barry Lyndon, come l'incontro adulterino tra Redmond e la cameriera nel parco e la carrozza del piccolo Bryan trainata dai montoni.
















    Production
    Il libro, copertina morbida rilegata a caldo, presenta soprattutto le riproduzioni fotografiche delle bozze del piano di produzione scritte da Kubrick a mano e a macchina.

    Questo piano di produzione era allegato alla fine del trattamento inviato alla MGM nel 1968 per ottenere il finanziamento: per convincere i capi della major, Kubrick ha spiegato dettagliatamente le sue idee per contenere i costi e al contempo realizzare comunque un film ricco e di valore. "Le quattro principali aree di costo per un film di grandi proporzioni," scrive Kubrick, "sono: 1) gran numero di comparse; 2) gran numero di uniformi militari; 3) gran numero di set costosi da costruire; 4) star cinematografiche ad alto salario." Per ciascuna di queste voci seguono pagine di escamotage per limitarne l'impatto sul budget, dalle riprese in Yugoslavia e Romania dove la manodopera costa un decimo che in Inghilterra alle uniformi stampate su carta resistente per le scene di massa, dal noleggio delle vere location fino l'uso della front-projection.

    Per quanto riguarda gli attori, Kubrick scrive una pagina che svela una acutissima percezione del valore degli interpreti di un film, suddivisi in "bravi attori" e "star", due gruppi che non sempre coincidono. Per il suo Napoleon all'epoca Kubrick aveva in mente David Hemmings come prima scelta e Oskar Werner come seconda scelta. Audrey Hepburn era invece l'unica opzione per la protagonista femminile: "non sono in realtà interessato a nessun'altra Josephine," confessa Kubrick: il problema è che l'attrice in questione "dovrebbe essere in grado di recitare l'infelicità con gusto e stile, una cosa che poche attrici sembrano in grado di eseguire senza cadere in un'esagerata auto-commiserazione." Questo commento è stato eliminato, prudentemente, dalla versione definitiva inviata agli ingessati dirigenti della major.

    Segue il capitolo su cosa è stato completato fino a quel momento, e uno si trova annientato dalla mole di progressi già raggiunti al solo mese di novembre 1968, poco più di sei mesi dopo il debutto di 2001: Odissea nello Spazio nelle sale. Ricordiamo anche che nel frattempo Kubrick era impegnato anche con la supervisione del doppiaggio nelle lingue straniere. Sono dieci anni che leggo di Kubrick e tuttora resto sorpreso di fronte a quanto efficacemente riuscisse a spremere il tempo.

    Viene poi riprodotto integralmente il piano di produzione in versione definitiva (una ripulitura di questi appunti), lo stesso che era trapelato su Internet qualche anno fa.

    Si passa poi a 80 pagine che riproducono integralmente la suddivisione in scene del trattamento, con distinzione tra scena di esterni e scena di interni, con in appendice l'elenco dei personaggi. Onestamente, cosa me ne frega? Si prosegue nell'inutilità con il piano di produzione delle scene in Ungheria, che fornisce informazioni sui giorni impiegati nelle varie scene, il costo di ogni risorsa e i servizi aggiuntivi (catering, trasporti, ecc.). Come buttar via mezzo libro.

    Proseguendo con i difetti del libro, la scelta della rilegatura a caldo è totalmente infelice per un volume di 250 pagine: basta leggerlo una volta, anche evitando di aprirlo completamente, e sulla costola si creano pieghe. Ben più grave, nella prima parte i fogli delle bozze sono palesemente in ordine errato: si ritrova lo stesso argomento separato in più punti e la prima versione scritta a mano è sparpagliata mezza all'inizio e mezza alla fine. Bravi, di nuovo, bravi.











    Le altre recensioni:
  • Impressioni iniziali: spacchettando i libri.
  • Prima parte: i tre libri più piccoli.
  • Seconda parte: sei saggi del libro Text.
  • Terza parte: i dialoghi tra Kubrick e Markham.
  • Quarta parte: corrispondenza, appunti e cronologia.
  • Sesta parte: il trattamento del 1968.
  • Settima parte: lo script del 1969.
  • Ottava parte: ultimi due saggi di Text.
  • Conclusione: recensione finale sull'intero libro.
  • 20 dicembre 2009

    Intervista a Diane Johnson

    Anacronistico e bizzarro articolo, quello di Mario Serenellini sul Venerdì di Repubblica dell'altro giorno, scritto per pubblicizzare The Stanley Kubrick Archives della Taschen (del 2005!) al posto del Napoleon appena uscito, con un'intervista a Diane Johnson, co-sceneggiatrice di Shining, e un vecchio commento di Martin Scorsese tradotto dai Cahiers du Cinéma.

    Un calderone senza senso, che spreca pure l'occasione di far dire alla Johnson, di solito un pozzo di intelligenza, acume e incisività, qualcosa di decente. A parte una gustosa frecciata a Stephen King, "obbligato a girare una propria versione" del romanzo per la TV e adesso perso dietro la scrittura di un sequel ("Il film deve essere stato un terremoto delle sue insicurezze"), le uniche due risposte degne di nota sono le seguenti:
    Confrontandosi sul libro, mi divenne sempre più chiaro che, per lui, il nocciolo era l'odio d'un padre verso il figlio. Una storia di famiglia: dove andava approfondita il più possibile la descrizione psicologica del ragazzino. Scartando le componenti classiche dell'horror – il fantastico, il mistero, le apparizioni spaventose – voleva che il terrore si scatenasse da una situazione organica.
    Ancora una volta, la normalità quotidiana rovesciata in enigma, in allarme. [...]
    In Shining pretendeva che il ribaltamento si realizzasse già nei dialoghi dell'inizio, neutri, e proprio per questo sospetti, minacciosi, perché senza preavviso suscettibili d'improvvisi giri di boa. Dialoghi scorrevoli, incolori, ma con dentro un virus pronto ad esplodere.
    La vera notizia contenuta nell'articolo è l'arrivo in Italia dell'installazione "Unfolding Aryan Papers" delle sorelle Wilson, intitolata "The Aryan Couple" (titolo che spero vivamente essere un errore del giornalista): in primavera, grazie all'interessamento della Fondazione Museo Archeologico Virtuale di Ercolano.

    Quando facemmo Shining e litigammo con Stephen King, Mario Serenellini, il Venerdì di Repubblica 18.12.2009

    Il negozio di dischi di Alex

    Dopo aver parlato dei Sunforest, la misconosciuta band che aveva composto due brani della colonna sonora di Arancia Meccanica, torno ad occuparmi della musica di questo film, in modo decisamente diverso.

    L'artista e designer John Coulthart ha scovato e riconosciuto molte delle copertine dei dischi in vinile visibili nella sequenza del film in cui Alex (Malcolm McDowell) passeggia nel negozio e va ad abbordare le due ragazze.


    Il suo resoconto, da premio partita del Trivial Pursuit, è un autentico spaccato dei perduti anni '70: il Chelsea Drug Store, emporio musicale al tramonto della Swinging London è oggi un fast food McDonald's. Come dice in chiusura l'articolo, "in un certo senso Arancia Meccanica serve oggi meno come un monito per il futuro e più come una finestra su un mondo che è scomparso."


    Alex in the Chelsea Drug Store, John Coulthart, Fouilleton 13.04.2006

    17 dicembre 2009

    A.I. from Kubrick to Spielberg: recensione

    Il libro A.I. Artificial Intelligence – From Stanley Kubrick to Steven Spielberg: the vision behind the film racconta con testi e illustrazioni il più famoso progetto incompiuto di Kubrick, il film sull'intelligenza artificiale, a cui il regista ha lavorato a più riprese agli inizi degli anni '80 e nei primi anni '90 e che sarebbe entrato in produzione una volta concluso Eyes Wide Shut. Il film è stato infine realizzato da Steven Spielberg nel 2001.

    Kubrick si era interessato ai computer e alle intelligenze artificiali alla fine degli anni '60, in piena lavorazione di 2001: Odissea nello Spazio; leggendo la novella di Brian Aldiss – il piccolo androide inconsapevole della sua condizione artificiale che desidera ardentemente l'amore della sua mamma, un'umana – aveva trovato un nocciolo perfetto attorno cui costruire una storia che avesse la complessità di un trattato filosofico pari a quelli che stava leggendo come documentazione (Mind Children di Hans Moravec soprattutto, con la sua mistura di scienza e socio-biologia) e al contempo l'impatto inconscio e di pancia di ogni mito.

    Quale dovere morale avremmo noi umani – si chiedeva Kubrick – verso un robot da noi costruito che avesse la capacità di amare, di provare un genuino sentimento d'affetto e attaccamento verso uno della nostra specie? Sarebbe l'equivalente di un animale domestico? Sarebbe qualcosa di simile a un nostro figlio? Che dignità ontologica avrebbe questo essere creato a nostra immagine e somiglianza in un atto di marcata emulazione divina? E' facile individuare qui echi del Frankenstein di Mary Shelley, mito moderno sulla falsariga del classico Prometeo.

    E ancora, sulla scia degli studi di psicologia cognitiva che simulano artificialmente il nostro comportamento per individuarne le specificità, cosa è l'amore? Cosa sono i nostri sentimenti, se un essere artificiale può emulare il comportamento di qualcuno che li prova? E se un robot si comporta come chi ama, si può dire che ami veramente? Cosa serve per amare? Vengono giustamente le vertigini a pensare a questi interrogativi.

    Ma il progetto A.I. andava perfino oltre: combinando la storia dell'androide bisognoso d'affetto David con le disavventure del burattino Pinocchio (nuova variazione sullo stesso mito, con ribaltamento di prospettiva dal creatore alla creatura), Kubrick aveva compiuto un assoluto colpo di genio, individuando nella fiaba di Collodi il vero mito di fondazione della cultura degli androidi: il desiderio di essere umani, di diventare "un bambino vero," di raggiungere il regno della realtà, della verità, dove stavano coloro che li avevano creati. Forse, suggeriva Kubrick, solo diventando "veri," diventando umani, i robot avrebbero potuto ottenere l'approvazione dei loro creatori, guadagnandosi il diritto all'esistenza da noi gelosamente custodito e negato con innegabile disagio.

    Kubrick avrebbe così anche indirettamente realizzato il miglior adattamento cinematografico di Pinocchio, cogliendone l'essenza, il cuore pulsante, il mito che Collodi non poteva pienamente comprendere perché ancora legato a un semplice burattino di legno e inconsapevole della pervasività dei burattini moderni di metallo e silicio. Un innesto potentissimo quello tra Aldiss e Collodi, anche a costo di rasentare il ridicolo inserendo la Fata Turchina in un film di fantascienza. Forse, suggeriva Kubrick con questo colpo di teatro, solo la magia avrebbe potuto permettere agli umani di superare le loro resistenze, di vedere come i robot senzienti potrebbero essere il naturale e inevitabile passo per scongiurare l'estinzione della specie umana, un passo non solo tecnologico ma evolutivo.

    "They hate us, you know, the humans," ammette dolorosamente Gigolo Joe al piccolo David, e nella storia si apriva un altro squarcio, quello del diverso, il secolare muro eretto dalle maggioranze per tenersi ben distinte dalle minoranze, siano esse lo schiavo, la donna, l'omosessuale, il negro e, certo, il muro contro il diverso per eccellenza: lo spettro dell'Olocausto, evento di enorme importanza per Kubrick.

    Super-Toys era un racconto perfetto per un film di Kubrick: una base narrativa, una storia efficace (anzi due dopo l'arrivo di Pinocchio) su cui poggiare i castelli teorici assorbiti in trent'anni di letture sull'argomento, una serie di domande ben più importanti delle risposte, una favola per adulti che puntava coraggiosamente alla fondazione di un nuovo mito moderno. Troppo complesso da gestire, un costrutto troppo pesante da sorreggere. Non sorprende che il progetto procedesse con lentezza durante gli anni, ostacolato come è stato detto dall'arretratezza degli effetti speciali ma anche, ne sono convinto, dalla sensazione di non aver ancora messo tutti i pezzi al loro posto. Però procedeva, andava indubbiamente avanti, nuovi tasselli, nuovi incastri, nuovi consulenti con il loro altrettanto valido contributo: Brian Aldiss, Bob Shaw, Ian Watson, Sara Maitland, la ILM, Chris Baker, tutti hanno lasciato il loro tassello, più o meno allineato con gli altri.

    Il puzzle in costruzione è stato spazzato via da una imprevista folata di vento nel 1999 e ricomposto nel 2001 da Steven Spielberg. Proprio lui inaugura questo libro con una prefazione che racconta brevemente la sua amicizia con Kubrick e la collaborazione sul progetto, non senza qualche errore fattuale (nel 1993, convocato a Childwickbury dopo Jurassic Park, non poteva aver visto i disegni di Chris Baker, iniziati nel 1994) ma con indubbia modestia: "as proud of the film as I may be, I still wish we could have seen Stanley's version of A.I. It might have been his greatest achievement."

    Devo tutto sommato dare atto a Spielberg di aver affrontato il compito di dirigere A.I. con passione e sincerità: il fatto di non aver assunto alcuno sceneggiatore per ricavare uno script dal groviglio di appunti e trattamenti kubrickiani scegliendo invece di scrivere tutto da solo, una cosa che non faceva dal 1977 con Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, è l'indubbia prova della sua volontà di rispettare il suo legame con Kubrick e mantenere il più possibile intatte le discussioni che i due avevano fatto sul progetto. Evitare uno scrittore su commissione ha impedito che si frapponesse un altro filtro tra noi e il film che avrebbe diretto Kubrick, oltre quello inevitabile della sensibilità di Spielberg.

    Jan Harlan, produttore esecutivo di Kubrick e vera anima dietro alla realizzazione postuma di A.I., scrive al contrario un'introduzione dai toni forzatamente epici: "alla morte di Stanley nel 1999, vidi i mille disegni di Baker scivolare nell'oceano dell'oblio, insieme alla storia, alla sceneggiatura, ai tentativi falliti, all'entusiasmo e all'amore per questo progetto ambizioso. Ma Steven Spielberg è arrivato in soccorso e ha salvato tutto quanto..." Ripetendo il luogo comune del passaggio di consegne tra registi ("He's the best director for this anyway," sente Kubrick ripetere dalle nebbie del tempo) Harlan ci spiega come la sceneggiatura scritta da Spielberg sia migliore di quella abbozzata da Kubrick: può darsi, fatto sta che lo dice da otto anni senza permetterci di leggerla; ci deve bastare di sapere che Spielberg ha sviluppato alcuni personaggi, scartato certe scene e aggiunte altre, e dato una spinta in avanti alla trama.

    Il punto peggiore arriva quando Harlan racconta come il problema principale nel 1993 fosse la realizzazione di un convincente robot bambino: "Nessuno avrebbe creduto che il personaggio della madre avrebbe potuto amare un pupazzo." La scelta ovvia era utilizzare un bambino vero, ma Stanley aveva lunghi tempi di lavorazione e ben sapeva che si sarebbero notati cambiamenti dovuti alla sua crescita. Fortuna che è arrivato Spielberg con le sue produzioni lampo, dice Harlan. Peccato, dico io, che Harlan non abbia minimamente compreso il punto che si nascondeva dietro l'ostinazione di Kubrick di voler creare un animatronic convincente: immaginiamoci i climax emotivi del film, con David abbandonato nel bosco da sua madre, o il suo suicidio dopo le sconvolgenti rivelazioni sulla sua vera natura, o perfino le lacrime che scendono dai suoi occhi quando si sente finalmente dire "ti amo" da sua mamma – immaginiamoci queste scene "recitate" da un robot, immaginiamoci tutto il film senza il pur bravo Haley Joel Osment; il pubblico si sarebbe emozionato, avrebbe pianto perfino, per i sentimenti provati da una macchina. Un essere digitale (un Gollum, per citare l'esempio più riuscito) non avrebbe toccato il punto teorico con la stessa efficacia, per questo aveva tenuto Chris Cunningham un anno a casa sua. Era indispensabile avere un robot vero sul set, in mezzo agli attori umani, per farci vivere l'inquietante domanda attorno cui ruota il film.

    Jane Struthers, capo pubblicazioni dell'Università delle Arti, sede del Kubrick Archive, si assume il compito di sbrogliare la matassa dei venticinque anni di studi, preparazione ed esperimenti sul film. Nel suo articolo intervista Brian Aldiss, autore della novella e primo collaboratore alla sceneggiatura, Ian Watson, secondo scrittore di fantascienza responsabile della gran parte del trattamento finale, Sara Maitland, scrittrice chiamata a enfatizzare il lato umano e sentimentale della storia, Chris Baker, disegnatore assunto da Kubrick per inventarsi da zero il look del film, i tecnici della Industrial Light & Magic di George Lucas, responsabili degli effetti digitali, e lo staff degli Stan Winston Studio, creatori degli animatronics.

    Grazie a queste testimonianze e alla sua preparazione, la Struthers tenta, e riesce, a dar conto della incredibile ricchezza filosofica dietro al progetto kubrickiano, in pagine così dense di riferimenti ai libri sull'Intelligenza artificiale di Marvin Minsky, Hans Morevec e Arthur Koestler, e perfino – mirabile dictu – di connessioni proustiane (La Ricerca del Tempo Perduto come saggio sul funzionamento della memoria, preso a modello per l'ultimo atto del film) che convincono a riconsiderare il film come qualcosa di più del solito omogeneizzato spielberghiano.

    Dopo un breve testo di Brian Aldiss sui disegni di Chris Baker, seguono tre capitoli, uno per ogni atto del film – l'arrivo, il viaggio, la scoperta – con testi scritti sempre dalla Struthers combinando un riassunto della trama, suggerimenti per una lettura attenta del film (motivi circolari ripetuti, rimandi tra scene, uso di specchi e immagini riflesse, ecc.), ricordi di Baker su cosa era stato discusso in fase di progettazione degli storyboard tra lui e Kubrick, commenti degli scenografi, dei tecnici e dei creatori di effetti che hanno lavorato con Spielberg al suo film. I testi sono corredati da moltissimi disegni di Baker, alcuni fotogrammi del film, qualche foto di scena e passaggi dal trattamento di Ian Watson e battute dalla sceneggiatura di Spielberg.

    Devo dire che il mix di questi elementi (una dichiarazione di un tecnico che avvia uno spunto di riflessione affiancato da un disegno di Baker confrontato con un fotogramma del film, e così via) è estremamente efficace. Leggendo e sfogliando il libro, il film torna alla memoria e, quasi miracolosamente, i suoi elementi vengono messi meglio a fuoco, le sensazioni emotive suscitate riaffiorano e si combinano con le idee esplorate nella prima parte del libro.

    Viene anche molto abilmente restituita la volontà degli artisti coinvolti di rispettare l'idea originaria di Kubrick, attenendosi ai ricordi di Baker e frenando il più possibile la tentazione di interpretare o di concludere quel che era ambiguo. Non so quanto questo effetto sia creato ad arte o quanto invece (fortunatamente, dico da ammiratore di Kubrick) sia stato semplicemente raccontato, tuttavia il messaggio del tentato rispetto della visione kubrickiana passa, e passa bene.

    Purtroppo il libro prosegue con un superfluo commento di Jan Harlan che rovina l'atmosfera di convincente sottotono ribadendo a colpi di grancassa quanto Kubrick sarebbe stato fiero del film diretto da Spielberg. Mi ero quasi convinto della bontà dell'operazione, molto più di quanto lo ero stato nel 2001 all'uscita del film, e poi l'inevitabilità delle conclusioni facili à la Harlan è tornata a infastidirmi. Può anche darsi che Kubrick avrebbe apprezzato A.I. di Spielberg, ma non è possibile dirlo e soprattutto è una considerazione che non spetta certo al produttore (esecutivo) del film. "I grandi artisti sono generosi perché se lo possono permettere," chiosa Harlan sottintendendo che la cessione della sedia da regista era programmata e sarebbe avvenuta comunque. Non abbiamo prove (anzi, in realtà abbiamo indizi a sfavore) e vano è sperare che il nostro abbia il buon gusto di non sostituirle col tautologico "io lo conoscevo bene e ve lo posso garantire."

    La tanto strombazzata (all'epoca) frase di consegna dell'opera, "I write and you'll direct," ribadita da Spielberg in ogni intervista e ripetuta anche da un esageratamente soddisfatto Jan Harlan, a me ha sempre suonato come una delle classiche battute di Kubrick, quelle sparate assurde con cui sorprendeva l'interlocutore lasciandolo incredulo a baloccarsi tra l'implausibilità del commento appena sentito e la supposta verità dello stesso giacché proferito da Stanley Kubrick in persona. Della stessa categoria è ad esempio l'invito fatto a Raphael sull'andare sul set di Eyes Wide Shut proprio quando ci sarebbe stata la Kidman nuda, o i divertiti commenti riportati da Michael Herr nel suo libro.

    Chiude il libro un saggio di Cynthia Breazel, direttrice dell'unità robotica del MIT, che ripercorre la storia delle ricerche sull'intelligenza artificiale e dei tentativi di costruire robot senzienti; inoltre, racconta il suo coinvolgimento al film A.I. in veste di consulente tecnico per la campagna promozionale, ruolo che l'ha portata infine a collaborare con Stan Winston alla creazione di Leonardo, primo robot animato senziente, un "vero personaggio" che resta vivo anche quando le macchine da presa si spengono. Il pupazzo Leonardo, oltre all'obiettivo di far avanzare la tecnologia robotica, ha permesso anche di raggiungere il secondo scopo degli studi sull'intelligenza artificiale, quello di capire meglio il nostro comportamento sociale e la nostra relazione con le macchine intese come specchi di noi stessi. La Breazel ci rivela in chiusura di essersi emozionata nell'aver visto molte persone reagire alla presenza di Leonardo con simpatia, tenerezza e affetto. Ecco, Jan, vedi? Aveva ragione Kubrick.

    Sono sempre quello che si lagna per la mancanza di esaustività o per la frustrazione del desiderio di avere TUTTO: questa volta la bellezza di questo libro ha arginato le lamentele. Di più, l'efficacia dei testi della Struthers potrebbe perfino iniziare un processo di rivalutazione del film di Spielberg.

    Insomma, un superbo lavoro di editing (inteso come selezione e giustapposizione degli elementi) per una lettura sorprendentemente chiarificatrice e illuminante. Sì, è vero, avrei voluto tutti i mille e mille disegni di Chris Baker e le centinaia di appunti di Kubrick e tutto il trattamento di Watson e le riscritture della Maitland, avrei voluto tutto questo, eppure erano anni che non mi entusiasmavo così per un libro su Kubrick.

    13 dicembre 2009

    Party di lancio del Napoleon (2)

    Vi offro una pausa leggera tra le recensioni-mattone dei dieci libri dello Stanley Kubrick's Napoleon proponendovi il comunicato stampa rilasciato dalla Taschen a seguito del party di lancio a Childwickbury.
    On the night of December 8, 2009, we celebrated the launch of Stanley Kubrick's Napoleon: The Greatest Movie Never Made at a very special drinks party at Childwickbury House, the Kubrick family home outside London. We felt extremely priviliged to offer our guests access to the very epicenter of Kubrick's life and work.
    Jan Harlan, producer of many Kubrick films, Stanley Kubrick's widow Christiane Kubrick, editor Alison Castle and M/M Designers welcomed guests to the event and gave lots of background information about the making of the book. Our partners for the event, the British Film Institute, Empire Magazine, one of the leading industry papers, as well as the University of the Arts, which holds the Kubrick Archives, contributed with their VIP guest lists to form an eclectic crowd of diehard film buffs.
    The event attracted huge interest and was attended by British film director Stephen Frears, Turner Prize winning artist Mark Wallinger, artists Jane and Louise Wilson and journalists from national newspapers the Sunday Times Culture, Sunday Times Style, The Observer, The Guardian, The Independent and Independent on Sunday, style press including Dazed and Confused and i-D magazine.
    A very heart-felt thank you to Christiane Kubrick and Jan Harlan for their hospitality!

    Non so a voi, ma a me non mi pare tutta questa allegria dalla foto. Forse è andata meglio poco dopo, quando Jan si è messo a fare il numero dei coltelli per aria.

    12 dicembre 2009

    Napoleon: recensione parte 4

    Prendo una pausa nella lettura del corposo Text e passo a svagarmi con gli altri tre librettini di immagini, rilegati come quaderni dalla copertina lucida.

    Correspondence
    Si tratta di una raccolta della corrispondenza intercorsa tra Kubrick e i suoi attori e collaboratori. Troviamo la proposta a Oskar Werner per interpretare Napoleone Bonaparte e la sua risposta incerta (mette in guardia Kubrick dal parallelo film di De Laurentiis con Rod Steiger), seguita dalla lettera di Audrey Hepburn che rifiuta il ruolo di Josephine causa anno sabbatico lontano dai riflettori ("I hope you can understand this... and will think of me again in the future?"). Il problema di Waterloo ritorna con una lettera preoccupata di Robert O'Brien, capo della MGM, convocato dalla Columbia Pictures per un possibile conflitto tra i due film: Kubrick verga a penna la sua strategia difensiva direttamente sulla lettera: punto primo, il suo film coprirà l'intera vita di Napoleone mentre Waterloo si concentra solo sulla battaglia omonima; punto secondo: Waterloo e i Cento Giorni rappresentano una piccola porzione nel totale dei giorni vissuti da Napoleone (ribadiamo il concetto); punto terzo: "they are worried," non lui. Applausi.

    Ringraziamo sentitamente gli eredi di Felix Markham che, mettendo a disposizione le lettere spedite da Kubrick, ci hanno permesso di scoprire il dubbio del regista circa la capacità del grande pubblico di seguire vicende politiche così complesse ("When the Marshalls had other titles would it be wrong to keep calling them Marshall Ney instead of Duke de? It is, of course, terribly difficult for an audience to keep track of a change in name. You are lucky if they remember who Marshall Ney is."), la sua volontà di chiarire ogni punto del contesto storico-politico ("Did ship owners, bankers, government financiers have to pay taxes if they were not in the nobility?") e l'imbarazzo nel dover continuare a posporre gli incontri a causa delle difficoltà produttive e della pausa forzata dovuta alla realizzazione di Arancia Meccanica ("I should hate to be the cause of you losing a motor holiday, especially as I will shortly have to ask David Norris to speak to your agent about another postponement of our recent postponement. [...] I can't promise what the date will be. If I had to assign likely probabilities, I should say Aug. 1 20%, Aug 15 60%, Aug 31 87%. I reserve something for the asymptotic progression I seem to be following. Perhaps you can make some kind of a decision based on the above."). Come annunciato negli articoli promozionali per la vendita del libro, molto spazio è dedicato alla faccenda delle ferrature anti-gelo dei cavalli in vista della Campagna di Russia, senza per altro arrivare a una conclusione definitiva sull'unica leggerezza tattica di Napoleone.

    Dà molta soddisfazione leggere questa corrispondenza ma, non essendo ordinata cronologicamente, resta difficile orientarsi tra i tre tentativi di produzione del Napoleon (MGM, UA, WB).

    Il libretto si chiude con un paio di biglietti di Kubrick a Markham, che retrospettivamente si tingono di rimpianto: "Waterloo was such a silly film. It will not make things any easier but in the end I am sure we will get it done." (19.04.1971) e "I am still editing A Clockwork Orange and after Warner Bros. see it in about a month I may have some news about the Emperor." (06.06.1971) Torna alla mente quel biglietto di auguri natalizi, di doloroso ostinato ottimismo, alla costumista di Aryan Papers, altro progetto inghiottito dal tempo: "All the work will not have been in vain."







    Notes
    Il libretto presenta una collezione di appunti scritti da Kubrick su vari blocchi e quaderni: idee buttate giù nel corso degli anni, punti chiave da non dimenticare, domande da rivolgere agli esperti e così via. Si comincia con una vecchissima pagina di carta intestata molto ingiallita, non datata, che presumibilmente risale agli inizi del 1967 e che riporta appunti così sibillini da metter in moto chissà quali associazioni: "You need distance", "A great challenge", "The broadest possible canvas". Soprattutto, vi si legge una fascinazione per il film muto come modello estetico di economicità ed efficacia: "Silent film – Titles – Images and music", "Dialog is too personal and with a character like N. is always banal." "Conciseness of brief titles – brevity, 1 title 1 shot, and synch sound effect." "Power of picture and music."

    Si passa quindi ad un quaderno a righe con appunti microscopici per valutare la fattibilità di un film che tratti un argomento così vasto come la vita di Napoleone: "Narration has 162 words per minute. If the film were 180 minutes long and one-third of it were narration, 60 minutes @ 162 wpm = 9720 words, say 10,000. There are about 400 wppage in JH Rose book. That would mean his entire life would have to be explained in 25 book pages. Can this be done?" Posto che ci sono 9000 parole in un film di 3 ore – si chiede Kubrick il regista – se il film fosse in due parti, ciascuna di 3 ore ciascuna, ne verrebbe fuori una logorrea. Meglio in tre parti? Con due parti, in simultanea nei cinema, il pubblico pagherebbe due biglietti – spera Kubrick il produttore – e il secondo film incasserebbe tanto quanto il primo, se il primo fosse un successo. Dubbi mica da poco.

    Secondo riferimento formale: il documentario televisivo; "Several minutes can be spent on each important character, introducing them – possibly before any of the film eventually starts its major line. If spent an average of 3 minutes per person, you could do 20 in an hour. How will anyone will remember them later? Would this be better done en passant?" Riesco quasi a vederlo, questo film.

    La vera perla viene scovata qualche pagina dopo, in un biglietto rosa che riporta la trascrizione di un pensiero di Napoleone: "I find no difficulty having many things in mind. My mind is like a chest of drawers. Each problem is placed in its own drawer. When I want to think about it I open the drawer. When I wish to interrupt, I shut the drawer and open another. When I want to sleep, I shut all the drawers, and I am fast asleep." Per proseguire il discorso sull'identificazione del regista col personaggio, altri appunti si interrogano sui metodi di gestione e archiviazione delle informazioni tenuti da Napoleone: quante segretarie, come lavoravano quando erano in viaggio, quali bloc notes, dove venivano tenuti, ecc.

    Per suggerire al pubblico cosa volesse dire vivere giorno per giorno con Napoleone – uno degli obiettivi dichiaratamente perseguiti da Kubrick ("You want to see an impression of his life flow by.") – gli appunti decidono che si deve sempre aver presente quali persone avesse attorno ("Describe people he would be with in all occasions.") e quale fosse la routine giornaliera: "1. Where did he sleep – describe; 2. What time rise; 3. Where wash; 4. Where breakfast – what eat; 5. Describe activity of morning; 6. Where eat lunch – what eat; 7. Afternoon activity; 8. Dining – where, what; 9. Evening activity; 10. What time bed." Ricordarsi di "fill out for weekdays and weekends," ovviamente.

    Alla fine, il nocciolo sta tutto in queste due frasi: "You cannot hope to fill in all the details. You cannot even get in all the key events without details." Un dilemma da cui è difficile liberarsi. Eppure Kubrick, nella bozza di lettera con destinatario ignoto che chiude il libro, in cerca di finanziatori per il terzo tentativo di resuscitare il progetto, aveva l'ardire di scrivere l'ormai famosa frase: "It's impossibile to tell you what I'm going to do, except to say that I expect to make the best movie ever made."

    Questo quaderno dalla copertina rosso bruno è il libro migliore fino a questo momento. Ma anche qui il solito difetto: 40 pagine quando ne avrei volute 4000. E sono certo che allo Stanley Kubrick Archive giace materiale per almeno altri dieci libri come questo.








    Comunque, il desiderio di metter ordine tra tutto questo materiale si fa sempre più pressante. Vado ad aprire il libro Chronology sperando in una serie di diagrammi, elenchi e calendari per ragionare sull'evoluzione del progetto, ma scopro che il libro è interamente occupato dalle foto alle schede di cronologia che Kubrick aveva fatto compilare agli studenti di Markham per tener traccia giorno per giorno degli spostamenti e delle azioni dei vari personaggi. Come il libro Picture file, uno spreco di spazio e la conferma della totale mancanza di comprensione di cosa è veramente importante. A me, lettore disposto a sborsare 500 Euro per questo Stanley Kubrick's Napoleon, non interessa il sottoprodotto storico delle ricerche del regista, interessa immergermi quanto possibile dentro la testa di Kubrick e vedere su cosa stesse ragionando mentre pensava al film. La corrispondenza, gli appunti, le foto ai costumi riescono a darmi barlumi del film che stava per nascere, le fotografie ai libri consultati e le schede cronologiche sui personaggi decisamente no. Avessi Alison Castle tra le mani le farei molto male.






    Le altre recensioni:
  • Impressioni iniziali: spacchettando i libri.
  • Prima parte: i tre libri più piccoli.
  • Seconda parte: sei saggi del libro Text.
  • Terza parte: i dialoghi tra Kubrick e Markham.
  • Quinta parte: iconografia e piano di produzione.
  • Sesta parte: il trattamento del 1968.
  • Settima parte: lo script del 1969.
  • Ottava parte: ultimi due saggi di Text.
  • Conclusione: recensione finale sull'intero libro.
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