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01 novembre 2023

Un tè con Arthur Clarke

La visita alla casa di Arthur C. Clarke è stata una tappa imprescindibile del mio recente viaggio in Sri Lanka. 

Lo scrittore di fantascienza si era trasferito a Colombo, la capitale del paese, a metà degli anni '50 per sfuggire dal pessimo clima inglese e dedicarsi alle incursioni subacquee, altra sua grande passione. Ha vissuto in questa casa per gran parte della sua vita. 

Dopo la morte di Clarke nel marzo del 2008, il suo assistente personale Rohan De Silva ha creato una Fondazione a suo nome per custodire la memoria e la presenza dello scrittore nel luogo in cui ha vissuto. In particolare, lo studio dove Clarke ha scritto la maggior parte dei suoi romanzi e dei suoi saggi scientifici è mantenuto nelle esatte condizioni in cui lo scrittore l'ha lasciato

Per chi conosce Clarke, si tratta della celebre "ego chamber," come l'aveva battezzato lui stesso con un gioco di parole con l'espressione "echo chamber". Lo studio è pieno zeppo di attestati, certificati, targhe, premi vinti, foto con dedica e cimeli assortiti che ribadiscono quanto geniale e influente sia stato Clarke – una "camera dell'ego" del tutto appropriata per chi era stato soprannominato proprio "Ego" dai suoi amici.

Il telescopio Questar accanto al vecchio Mac che a volte faceva le bizze come Hal 9000...

...le fotografie della sua famiglia adottiva, il suo primo telefono cellulare, un dinosauro robot...

...dozzine di edizioni di 2001: Odissea nello Spazio...


...l'attestato per la nomination agli Oscar 1969 per la sceneggiatura del film... 

…i ricordi e gli omaggi degli astronauti dell'Apollo 11, incluso un libro di Neil Armstrong con dedica accanto a un pezzettino di pietra lunare appicciato col nastro adesivo. 


Perfino una foto con dedica di Elizabeth Taylor: "Al Dottor Arthur C. Clarke, possa il tuo futuro essere sempre primavera." 

La casa non è propriamente un museo: è aperta al pubblico e può essere visitata facendone richiesta alla Fondazione, ma è più come andare a trovare Clarke in absentia che visitare un museo. È una formula ibrida, mi ha spiegato Rohan: l'unica possibile in effetti; se fosse un museo inserito nelle guide turistiche del paese avrebbe più visitatori e sarebbe difficile mantenere la sicurezza del luogo e dei ricordi presenti. In questo modo invece si viene accolti da Rohan come sarebbe stato anche con Clarke in vita, si è accompagnati di sopra al suo studio, si prende con lui un tè preparato dalla domestica, “with milk and lots of sugar,” proprio come piaceva ad Arthur. 

Rohan racconta volentieri aneddoti dalla sua vita trascorsa con Clarke. Il tavolo nella veranda che si affaccia sul giardino è dove lo scrittore faceva colazione; nell'angolo a sinistra, sotto la siepe, ci sono le lapidi degli animali domestici: cinque cani e una scimmietta. "Un incubo," la ricorda Rohan, il cui primo lavoro fu proprio quello di prendersi cura della bestiolina. "Più che altro cercare di contenerla. I vicini si lamentavano continuamente, rubava tutti gli spazzolini da denti." "È una voce niente male da mettere sul curriculum," gli ho detto: "domatore di scimmie." 

All'altro angolo del giardino c'è una statua in cemento di un Tyrannosaurus Rex. "Quello è Tyron. Arthur l'ha visto una volta in un negozio di un paesino al nord e non smetteva di parlarne, finché non mi è toccato prendere un furgone e andare fin lassù a a comprarglielo e metterlo in giardino. Una faticaccia che non ti dico." (Le vite degli assistenti personali dei geni si assomigliano un po' tutte, ho pensato tra me e me.) 

Avevo con me una copia di 2001 tra Kubrick e Clarke per entrare nella ego chamber con le giuste credenziali (più seriamente, per mandare una foto a Simone Odino). Colpito dalla gentilezza di Rohan, e incoraggiato dalla sua curiosità per la storia di creatività e baruffe che il libro racconta e che lui non conosceva, ho deciso di regalargliela. "Aspetta un attimo," mi ha detto Rohan, prima di andare ad aprire un cassetto e scartabellare dentro una scatola. "Ecco, questo è per te." 

"Un'insalata, una macedonia..." leggevo dallo scontrino. "È il pasto di quella giornata, nel ristorante dove Arthur andava sempre, al mare." "Fish and chips! Come ogni bravo inglese. E gelato alla fragola per chiudere." "Ti avevo detto che aveva un debole per i dolci." 

È stato un pomeriggio emozionante. La casa, ormai vuota, è piena dell'affascinante presenza di Clarke. 

Sulla via dell’uscita, attraversando la camera da letto, Rohan ha tirato un lembo della coperta per togliere una grinza. 

31 maggio 2023

Overlooked! Un videosaggio su Shining

C’è una cosa alquanto strana in Shining di Stanley Kubrick, un dettaglio che molto probabilmente non avete mai notato. 

Eppure c’è, dappertutto nel film. È bizzarro, e soprattutto inquietante. Che cosa significa? 

Overlooked! è il mio primo videosaggio. Dopo la serie Cracking the Kube che presenta i miei saggi accademici, ho deciso di realizzare un video su un dettaglio di Shining che da anni mi inquieta. A differenza degli altri miei lavori basati sui documenti d'archivio, questo ha un taglio più interpretativo, ed è una sorta di piccola lezione di grammatica cinematografica. 

Spero vi piaccia. 


C'è anche una versione testuale, per Twitter. Anche se è in inglese, contiene delle GIF piuttosto fiche, tipo questa: 


Come direbbe lui, "Vacci a dare un'occhiata!

Il video è anche in versione inglese, per chi lo preferisse: 



Fatemi sapere che ne pensate nei commenti. Come dico nel video, sono curioso di sentire la vostra idea sul perché c'è questo apparente errore lungo tutto il film. 

04 aprile 2023

Intervista a Lee Unkrich

Lee Unkrich è il curatore del libro Stanley Kubrick’s The Shining, uscito il mese scorso da Taschen e che ho recensito qualche settimana fa per AKblog. Il testo che segue combina due conversazioni che ho avuto con Lee, una piuttosto rapida via email per la pubblicazione dell’articolo uscito su Il Giornale e una chiacchierata via Zoom di un’ora e un quarto. La trascrizione utilizza anche alcune risposte che Lee ha dato durante una conversazione di gruppo organizzata da Mark Lentz, che ringrazio, per gli Stanley Kubrick Meet-Up. La traduzione dall’inglese è mia. 

Come è iniziata la tua ossessione per Shining

Mia madre mi portò a vedere il film quando avevo 12 anni – una scelta forse un po’ avventata visto che ero un ragazzino piuttosto impressionabile. E infatti il film si infilò nel mio cervello come null’altro. Fu un'esperienza inebriante. Probabilmente parte del fascino del film era dovuto al fatto che sentivo il piccolo Danny molto vicino a me: anche io come lui ero figlio di un matrimonio problematico e anche io come lui passavo un sacco di tempo a casa da solo, in preda alle sinistre fantasie di bambino. Quell’estate comprai il libro di Stephen King, nell’edizione con la copertina gialla come la locandina del film. C’era un inserto con fotogrammi in bianco e nero e mi accorsi che una delle immagini raffigurava Wendy in accappatoio intenta a preparare la colazione nell’enorme cucina dell’Overlook Hotel – una scena che non ricordavo di aver visto al cinema. 

C’erano quindi altre sequenze che avevano girato e poi scartato? Iniziai a fantasticare su queste scene mancanti e mi misi alla ricerca di tutto quello che potevo trovare sul film – articoli, interviste, foto… E scoprii che Kubrick aveva addirittura tagliato una scena alla fine del film, un epilogo in cui il direttore dell’hotel va a trovare Wendy e Danny in ospedale. Morivo dalla voglia di vederla. Ricordo che riuscii a trovare un tizio che vendeva la sceneggiatura del film e aspettai il suo arrivo con una trepidazione incredibile – solo per poi scoprire che in realtà era quello che si chiama il post-producion script, una battitura a macchina dei dialoghi del film già montato, quindi inutile per soddisfare le mie fantasie. Insomma per farla breve presi ad accumulare quanto più materiale trovavo, nelle case d’asta, su eBay, nei negozi di collezionismo…

Mi ricorda qualcosa… Anche io ho raccolto così gran parte del materiale d’epoca su Kubrick. 

Anno dopo anno la collezione cresceva. Tenevo tutto sul computer. E a un certo punto ho pensato, con internet, i blog e tutto quanto, magari sarebbe stato divertente mettere online quello che avevo, magari ci sarebbe stato qualcuno là fuori che amava il film quanto me e che avrebbe avuto piacere a vedere le cose che avevo racimolato negli anni. Così feci un blog, che tra l’altro è sempre online all’indirizzo theoverlookhotel.com, dove pubblicavo qualche foto, qualche citazione di Kubrick dalle interviste… e pensavo, magari funziona anche come esca, magari mi contatterà qualcuno che ha lavorato al film… E infatti una delle prime persone a farlo fu Jeff Blyth, l’operatore per le riprese con l’elicottero con cui si apre il film. Non solo era una persona molto carina con cui parlare ma aveva anche un sacco di fotografie che non avevo mai visto. Il che rinfocolò di nuovo la mia ossessione. Mi pare sia stato durante la lavorazione di Toy Story 3 che ho sentito per la prima volta che c’era lo Stanley Kubrick Archive, così qualche tempo dopo, nel 2010, quando mi trovavo a Londra per la promozione del film, ci sono andato e beh, lì altro che rinfocolare… 

Ah, la conosco bene questa sensazione! 

Ci ho passato tre giorni. Non solo c’era una sceneggiatura che conteneva l’epilogo all’ospedale, ma c’erano anche altre stesure del copione, e il romanzo di King su cui Kubrick aveva preso appunti, non solo sulla copia pubblicata, ma anche quella prima, quando glielo mandarono in bozze dalla Warner che ancora nemmeno si chiamava Shining. Non solo c’erano cose che non avevo mai visto, c’erano cose a cui nemmeno avevo mai pensato! A poco a poco ho iniziato a pensare che c’era abbastanza materiale per farci un libro – non un libro di analisi critica sul film, di quelli ce ne sono fin troppi, ma un libro che raccontasse la lavorazione di Shining, il processo creativo che si nasconde dietro all’opera finita. 

Qui con me sfondi una porta aperta.

Così ho contattato Jan Harlan, mi sono presentato, e gli ho detto cosa volevo fare. E lui ha risposto, “Benissimo, fantastico, sarebbe bellissimo fare questo libro con te. Il problema è che abbiamo appena dato l’ok per un libro sulla realizzazione di Shining a un altro autore.” Che sfiga assurda, ti pare? Ma dopo un primo momento di scoramento ho detto a Jan, “Senti, perché non provi a sentire se l’altra persona è interessata a mettersi in contatto con me? Magari possiamo collaborare.” Jan ha fatto da tramite e così ho scoperto che l’autore era Jonathan Rinzler, che aveva firmato come J.W. Rinzler diversi libri sulla realizzazione di film famosi, da Guerre Stellari a Indiana Jones a Alien. In effetti all’epoca lavorava per la LucasFilm, in California, allora l’ho invitato a pranzo alla Pixar e siamo andati immediatamente d’accordo. Ora, Jonathan aveva scritto questi libri, tutti considerati i making-of definitivi per quei film, ma non aveva ancora fatto nessuna ricerca su Shining. Io invece avevo già accumulato un sacco di materiale, per cui abbiamo deciso di unire le forze. 

Era il 2012. Ora, uno penserebbe che la Taschen non vedesse l’ora di pubblicare un libro su Shining, ma all’epoca erano nel mezzo della produzione del volume su 2001: Odissea nello Spazio e non volevano impegnarsi con un altro libro su Kubrick prima di vedere come sarebbe andato quello su 2001. Io però ero preoccupato che, se avessi aspettato troppo tempo, qualcuno tra coloro che avevano lavorato al film non sarebbe più stato tra noi… Alcuni erano già passati a miglior vita e altri non erano più giovanissimi, avendo lavorato a Shining quando erano già affermati. E in effetti col senno di poi ho avuto ragione a pensarla così, perché nel corso di questi dieci anni trascorsi dietro al libro almeno cinque persone tra quelle che ho intervistato sono scomparse. Comunque, decisi di darmi da fare e di iniziare a rintracciare quante più persone possibile. Cosa che non è stata per niente facile, mi ci è voluto davvero molto molto tempo. Per dirne una, le gemelle Lisa e Luise Burns, ci ho messo anni per riuscire a trovarle. Ora sono su Twitter, ma all’epoca… Shelley Duvall è stata un’altra che ho rincorso per moltissimo tempo… E poi un sacco di altro tempo c’è voluto per recuperare tutte le interviste che erano state pubblicate nel corso degli anni, anche perché ho voluto contattare le redazioni dei giornali dove erano apparse, per vedere se potevo avere le trascrizioni integrali e non solo quello che era stato pubblicato, e sorprendentemente ci sono riuscito quasi sempre. Comunque ecco, è stato un lavoro sfiancante, assemblare tutto questo materiale. 

TM & © WARNER BROS. ENTERTAINMENT INC. (s22)
Courtesy of the Stanley Kubrick Archive

Ma uno dei punti di forza del libro è proprio che sei riuscito a intervistare tutti, davvero tutti – chiunque abbia avuto un qualche ruolo benché minimo nella lavorazione di Shining è presente nel libro. Quale intervista ti è rimasta più impressa? 

È vero, avevo deciso fin da principio che volevo parlare con tutti, non importa quanto bassa potesse esser stata la loro mansione nel film. Ero convinto che chiunque potesse avere una bella storia da raccontare. E in effetti molte delle cose interessanti che sono nel libro sono venute fuori dai ricordi di persone che altrimenti non sarebbero state intervistate: elettricisti, attrezzisti, trovarobe, il cuoco personale di Jack Nicholson… tutti potevano avere storie interessanti da dire. 

Proprio una di queste persone che si è dimostrata molto più interessante del previsto è stata Joan Honour Smith, che era stata assunta per il ritocco fotografico dell’immagine del ballo del 4 luglio 1921 che si vede incorniciata alla fine del film. Di solito facevo le interviste la domenica mattina, quando in Europa era pomeriggio, e ricordo di aver detto a mia moglie, “Oh, questa non mi prenderà più di un quarto d’ora…” Voglio dire, quanto mai mi potrà dire, no? Beh, è venuto fuori che in realtà aveva un sacco di cose da dirmi e abbiamo chiacchierato per due ore. Per due motivi: il primo è che Kubrick ha voluto che lavorasse agli studi, quindi mentre aspettava che Kubrick avesse tempo per guardare il suo lavoro Joan ha potuto bighellonare sul set e osservare le riprese di molte scene; il secondo è che ha una memoria fotografica ed era in grado di raccontarmi tutto con moltissimi particolari, davvero nel dettaglio. Mi rendo conto che non è una risposta granché sexy alla tua domanda, ma lei mi è rimasta impressa, proprio perché è stata una mole di informazioni davvero inaspettata. 

Aggiungerei anche gli incontri con Greg MacGillivray, il responsabile delle riprese con l’elicottero che aprono il film, perché quando sono andato a trovarlo al suo studio ha tirato fuori un sacco di fotografie che nessuno aveva mai visto prima. Beh, poi ovviamente conoscere Danny Lloyd e la sua famiglia è stato uno dei momenti più belli… Ma davvero, la stragrande maggioranza delle persone con cui ho parlato è stata molto utile e per me è stato un vero piacere parlarci. Credo che si siano divertiti anche loro perché in molti casi erano persone che non erano nemmeno mai state intervistate nella loro vita, su niente, e credo sia stato divertente per loro tirar fuori dalla memoria vecchie storie. E anche quando le storie non erano granché interessanti, mi hanno comunque aiutato a unire i puntini: a volte avevo una foto e non riuscivo a capire cosa fosse di preciso ed ecco che una persona mi raccontava un aneddoto che si collegava a quella foto e mi aiutava a capire un altro momento della lavorazione. Ecco, hai presente quando si vede nei film che il detective sta cercando di acciuffare il serial killer e tiene su una parete la mappa del territorio su cui appunta foto e documenti con le puntine e via via le unisce col filo? Così sono stato io per dieci anni, con tutte queste informazioni in testa che pian piano univo e collegavo. 

TM & © WARNER BROS. ENTERTAINMENT INC. (s22)
Courtesy of the Stanley Kubrick Archive

Raccontami dell’incontro con Danny Lloyd.

Beh quello è stato ovviamente bellissimo, specie perché una volta che sono andato a trovarlo a casa mi è squillato il telefono ed era Shelley Duvall. Le dico, “Shelley, non indovinerai mai con chi sono in questo istante,” e passo il telefono a Danny. “Ciao Shelley,” le fa lui. Non si sentivano dall’aprile del 1978, quando avevano girato l’ultima loro scena assieme. Un momento davvero emozionante. Ma l’incontro con Danny si è anche rivelato essenziale per la realizzazione del libro. Perché una delle cose che mi preoccupava era che, nonostante ci fossero al Kubrick Archive parecchie fotografie che documentavano la lavorazione, si riferivano solo a determinate scene, solo quelle. Ad esempio ce ne sono tantissime per la scena del ballo del 1921, con tutte le comparse vestite in costumi d’epoca, oppure per la scena in cui Wendy e Danny girano dentro al labirinto la prima volta. Ma un numero consistente di altre scene non erano state fotografate affatto. Temevo che l’apparato iconografico non fosse quindi abbastanza per un making-of di Shining che voleva essere definitivo, e certamente per un libro che doveva essere accettato dalla Taschen. 

Una delle persone più difficili da rintracciare è stato proprio Danny Lloyd. C’erano delle voci che dicevano che era diventato un professore di biologia in un’università statale del Kentucky così mi sono messo al computer e ho visitato tutti i siti internet di tutti i college che si trovano in quello stato. E guarda un po’, alla fine l’ho trovato, con una pagina che aveva anche il suo indirizzo email in facoltà. Gli ho scritto una lunga lettera, con le mie credenziali, il fatto che il libro era autorizzato dalla Kubrick Estate, la Warner Bros. e tutto quanto, ma non ho ricevuto risposta – se non dopo molto tempo. Danny era piuttosto nervoso all’idea di partecipare al libro. Non voleva che i suoi studenti sapessero chi era, temeva che sarebbero stati distratti da questa rivelazione, motivo per cui non aveva praticamente mai concesso un’intervista prima. Ed era anche molto protettivo nei confronti di Kubrick, della sua privacy, e della sua segretezza, nonostante fossero passati trent’anni dal film e più di dieci dalla sua morte. Così ho chiesto aiuto a Jan, che l’ha rassicurato e l’ha convinto. Ci ho parlato al telefono un paio di volte, delle lunghissime interviste davvero fantastiche. E ho notato che dopo aver parlato con me, Danny si deve essere un po’ aperto perché ha iniziato a partecipare a qualche convention in Kentucky, dove firmava autografi e si faceva fotografare coi fan. Tra l’altro donava tutti i proventi in beneficenza, una cosa davvero carina. E nel 2017 uscirono anche un paio di sue interviste sui quotidiani. In una di queste c’era una foto di lui sorridente davanti a un cimitero – che scelta originale, no? – mentre teneva in mano una fotografia scattata sul set di Shining, una fotografia che non mi pareva di aver visto da altre parti. Così gli chiesi che foto fosse e lui mi disse che era una di quelle che suo padre aveva scattato sul set. Ovviamente adesso volevo intervistare anche i suoi genitori! E ovviamente vedere quelle foto. Ma Danny tornò di nuovo sulla difensiva. Di nuovo ci volle un po’ di tempo, come per tutte le cose di questo libro in effetti – ricordo di avergli anche mandato un pacco regalo con dei pupazzetti della Pixar per i suoi bambini… Le stavo provando tutte! Insomma alla fine mi ci ha fatto parlare – prima solo sua mamma Ann veniva al telefono e poi anche suo padre Jim si è sentito sufficientemente a proprio agio da rispondere alle mie domande. A forza di chiacchierare siamo diventati amici e una volta gli ho detto che avrei avuto piacere di incontrarli di persona, cosa che hanno accettato. Quando sono arrivato a casa loro nell’Illinois mi hanno fatto trovare il tavolo di cucina coperto dei vestiti di scena che Danny aveva usato in Shining, e anche una delle giacchette di velluto di Jack. E io ero sbalordito, immaginati…

Anche qui ti capisco eccome! Avrai avuto la stessa mia faccia quando sono entrato nel garage di Emilio. 

Esatto! Alla fine di un’altra lunga chiacchierata, Jim tira fuori l’album di foto di famiglia. Inizio a sfogliarlo e vedo foto e foto e foto scattate sul set che non avevo mai visto prima. Nessuno le aveva mai viste prima, in effetti, nessuno al di fuori della famiglia Lloyd. Jim si era portato dietro una macchina fotografica e Kubrick gli aveva dato libertà assoluta di fotografare quello che voleva, a condizione che non rivendesse le foto a nessun giornale. La maggior parte erano un po’ sbiadite, come succede con foto sviluppate tanti anni prima, così gli chiesi se per caso avesse conservato anche i negativi. “Certo, te li vado a prendere.” E tornò con una scatola da scarpe con dentro i raccoglitori coi negativi, la maggior parte a colori e alcuni in bianco e nero. Circa 450 scatti. Ero a bocca aperta. Quando li ho scannerizzati non potevo credere ai miei occhi: c’erano foto da momenti della lavorazione che non erano stati fotografati da nessun altro. Queste foto sono quindi divenute l’ossatura visiva del libro e mi hanno permesso di formulare una proposta molto più convincente per la Taschen. Le foto sono state anche molto utili per le interviste con gli altri: gliele facevo vedere sull’iPad se eravamo di persona, o anche online, e aiutavano tantissimo l’affiorare dei ricordi. Diverse storie sono venute fuori proprio grazie alle foto. 

TM & © WARNER BROS. ENTERTAINMENT INC. (s22)
Courtesy of Jim and Ann Lloyd

È vero, anche io quando intervisto qualcuno cerco di fargli vedere foto o documenti in modo da vedere se aiutano la memoria. 

Ti faccio un esempio, perché è abbastanza sorprendente. C’era una foto di Danny con suo fratello e Vivian Kubrick, e dietro di loro c’era un signore coi capelli ricci e un paio di baffi belli folti che non avevo idea chi fosse, nonostante fossi diventato capace di riconoscere praticamente chiunque in ogni foto. Pensavo, boh, sarà stato qualche attrezzista di poco conto che non si vede altrove. E me n’ero dimenticato. Finché un giorno facevo vedere le foto a Leon Vitali, che appunto mi fa, “Sai chi è quello lì?” “No.” “È Werner Herzog.” [ride] Avrà avuto una trentina d’anni e non si riconosceva proprio. E non solo adesso il mistero era svelato, ma Leon continuò raccontandomi una bellissima storia. Herzog era sul set il giorno in cui giravano la scena di Danny che scorrazzava per l’hotel sul suo triciclo. Dopo una ripresa, il fonico disse a Kubrick che c’era qualcosa di strano nell’audio, con quell’alternarsi dei rumori delle ruote del triciclo sui tappeti e sul pavimento, e forse non funzionava bene. Kubrick ascoltò la registrazione e concordò che era strano, dava fastidio, e magari dovevano ripensare quella scena. Ma Herzog si fece avanti e disse, “A me sembra piuttosto fico, in realtà.” E siccome Kubrick ascoltava l’opinione di tutti, disse che ci avrebbe pensato e chiese di stampare quei ciak e di sincronizzarci l’audio. E così, guardando i giornalieri, si resero tutti conto che in realtà quell’alternarsi di suono forte e attutito, forte e attutito, era proprio interessante. Magari, non fosse stato per Werner Herzog, quella scena così iconica di Shining non ci sarebbe stata. 

Ho particolarmente apprezzato quando hai detto in un’altra intervista che a volte sei tornato a parlare con qualcuno perché avevi scoperto una nuova informazione e avevi bisogno di altri chiarimenti. 

Sì, e spesso volevo anche verificare alcune delle storie un po’ assurde che mi sono sentito dire. Così chiedevo in giro agli altri che erano sul set quel particolare giorno se avevano sentito o visto qualcosa che poteva corroborare la storia in questione. E quando non potevano, non ho incluso quelle storie, anche perché alla fine era chiaro dalle voci degli altri che la persona che me le aveva dette non aveva una buona reputazione, non era affidabile. Vai a sapere perché me le ha dette… Un’altra cosa complicata è stata quando avevo due storie contraddittorie sullo stesso episodio e dovevo decidere a quale prestar fede. E talvolta non era possibile decidere quale fosse corretta, così alla fine ho pensato fosse utile tenerle entrambe e dire, “Quest’altra persona ricorda l’episodio in modo un po’ differente…” Sai, la memoria a volte è fallace e quando non è possibile fare affidamento sui documenti, quando una storia non può essere verificata con lettere o coi piani di ripresa, quando insomma non ci può essere una prova documentale a supporto, per tutte queste storie apocrife, a un certo punto l’unica è presentarle per come sono.

Ma anche questo secondo me è un aspetto positivo del libro. Non mi hanno disturbato le diverse prospettive su alcuni episodi. Perché un conto è la realtà oggettiva – i documenti con il numero dei ciak battuti per una singola ripresa, ad esempio, che provano irrevocabilmente quante volte è stata rifatta una particolare battuta – e un altro è la realtà soggettiva delle persone che erano lì, e che hanno visto e vissuto tutto filtrato con la loro personalità. 

Sì, esatto. 

Lee Unkrich e Shelley Duvall nel 2018.

Oltre allo Stanley Kubrick Archive a Londra, quali altri archivi hai visitato per le tue ricerche? 

Non tanti. Sono andato alla Motion Pictures Academy Library di Los Angeles, dove sono conservate le carte di Saul Bass e dove ho trovato tutti i disegni e la corrispondenza con Kubrick durante l’ideazione della locandina del film. Ho anche ricevuto il permesso di visitare gli archivi della Warner Bros. dove ho trovato traccia delle conversazioni tra i dirigenti dello studio che raccontano la lavorazione del film dal lato dello studio.

Ah, quindi è lì che hai trovato quei memo aziendali sui problemi creati da Kubrick che non diceva loro il budget o il piano delle riprese.

Sì, stava tutto negli archivi della Warner. E poi, fammi pensare… L’Harry Ransom Center in Texas, a cui Diane Johnson ha affidato il suo archivio – ho visitato anche quello. Mi pare che siano questi, oltre al Kubrick Archive. 

Passando alla tua collaborazione con Jonathan Rinzler, puoi raccontarmi come è andata? Che sistema avete usato per dividervi il lavoro? So che tu hai condotto la maggior parte delle interviste mentre lui ha scritto la maggior parte del libro, ma ho notato che alcune interviste sono state fatte da lui, come quelle a Christiane Kubrick e Jan Harlan, e mi chiedevo se anche tu avessi quindi scritto qualcosa, o corretto la sua bozza. Da scrittore questa cosa mi interessa parecchio, come immaginerai.

Certo. Beh, come ho detto anche altrove, io un libro non l’avevo mai scritto e Jonathan invece aveva un sistema già bello rodato per scrivere questo tipo di libri. Così io gli ho passato tutta la mia ricerca, tutte le interviste e gli articoli che avevo collezionato fino a quel momento – avevo compilato un enorme file Evernote che gli ho girato, e nel corso del tempo abbiamo aggiornato questo file con quello di nuovo che trovavamo e con le interviste che via via facevo. Jonathan ha in effetti intervistato Christiane e Jan verso l’inizio dell’impresa perché una volta si trovava in Inghilterra e passò da Childwickbury per parlarci. Aveva anche qualche connessione con un po’ di tecnici inglesi grazie ai suoi libri precedenti, e ha intervistato pure loro. La cosa di cui aveva più bisogno, la cosa davvero più importante per lui era però avere i daily production reports, ossia i rapporti che a fine giornata l’assistente alla regia compila scrivendo tutto quello che è stato fatto, dall’orario in cui sono cominciate le prove, quello in cui si è battuto il primo ciak, quando c’è stata la pausa pranzo, quanti metri di pellicola sono stati impressionati, per quali scene, quante pagine di copione sono state girate e a che ore il regista ha mandato tutti a casa. E questi documenti non erano al Kubrick Archive. 

Come, no? Quando ho consultato il materiale di Shining per capire finalmente quanto c’è di vero dietro quelle storie sulle centinaia di ciak ho trovato i documenti con tutte le informazioni giorno per giorno… 

Sì, quelli sono i registri della segretaria di edizione, June Randall. E all’Archivio hanno anche i call sheet, i fogli di chiamata che sono preparati il giorno prima e che dicono quello che si intende girare l’indomani ma che non necessariamente vengono seguiti, specialmente in un film di Kubrick, con lui che spesso diceva di punto in bianco, “No, giriamo quest’altra scena.” I daily production reports invece sono un resoconto fedele di quello che è davvero successo sul set, sono questi che vengono inviati alla Warner, non c’è scritto nulla riguardo quanti ciak sono stati battuti ma contengono informazioni più generali, come appunto quali scene, quante pagine, in quali set e così via. Jonathan aveva bisogno di queste informazioni per strutturare il libro, perché così poteva dire tipo “il 14 luglio girarono questa scena di mattina e quest’altra di pomeriggio.” E infatti è proprio per cercare questi documenti che avevo fatto richiesta per entrare negli archivi della Warner. 

Insomma, tutte le informazioni che avevamo raccolto sono state colate – per così dire – dentro questa struttura cronologica e dopo non so quanti mesi – o anni, dovrei andare a riguardare tra le mie carte – Jonathan aveva prodotto una prima bozza, su cui io poi ho scritto un sacco di note. Principalmente per correggere alcune cose che non erano state rese in modo del tutto accurato, perché io bene o male ne sapevo più di lui. E avevo anche dei commenti su come certe persone risultavano dal testo scritto: se pensavo che un determinato momento per come era stato scritto potesse risultare poco corretto nei riguardi di qualcuno, o se mi sembrava che qualcuno potesse offendersi per come una cosa veniva detta… Sono sempre stato molto attento alla reazione che coloro che avevo intervistato potevano avere leggendo l’intero libro. Senza cambiare nulla dei fatti, beninteso, ma volevo assicurarmi che il testo non giudicasse nessuno, in alcun modo. Dopo questa mia lettura annotata, sono andato a casa sua e ci siamo seduti e abbiamo vagliato il testo, pagina dopo pagina. Avevo anche delle note su quello che potevamo togliere, e qualcosa che poteva essere spostato perché non mi sembrava nel posto giusto. La prima bozza era un terzo più lunga di quella pubblicata. Sono molto grato alla Taschen per averci permesso di fare un libro con così tanto testo, cosa che è inusuale per loro, ma la prima bozza era davvero troppo lunga. A parte piccole cose qua e là, la parte più consistente che abbiamo tolto riguardava il documentario di Vivian, di modo che ci siamo potuti concentrare di più sul film. 

Jonathan ha fatto i tagli e io l’ho aiutato anche in questo. Alla fine direi che il testo è per il 98% di Jonathan. Ho dovuto scrivere anche io qualcosa dopo che è morto, perché c’erano ancora delle cose da fare. Ad esempio, avevo concordato con un paio di persone che avrei fatto loro leggere le parti che li riguardavano prima di andare in stampa e così ho seguito io queste correzioni. Jonathan era ormai molto malato e non aveva più modo di occuparsi del libro, così mi ha dato il suo benestare e ho proseguito io con quello che rimaneva da fare. Anche le didascalie alle foto le ho scritte io, a parte qualcuna quando Jonathan aveva selezionato qualche breve informazione come una didascalia potenziale perché non si incastrava nel resto del testo. Sfortunatamente quello che Jonathan ha potuto vedere è stato solo la prima stesura del libro, che era un po’ un macello… È un peccato che non abbia potuto vedere il libro alla fine. Comunque questo è stato il nostro percorso. 

Quando mi chiedono di spiegare la collaborazione dico che il testo è quasi interamente di Jonathan e tutto quello che c’è attorno è il mio contributo, oltre come ho detto alla ricerca. 

Ecco, parliamo di quel che c’è attorno, della forma del libro. Come prima cosa, chi ha avuto l’idea di usare lo scrapbook come contenitore delle foto? 

È venuta fuori dalle discussioni con M/M Paris, i due designer, Michael e Mathias. Un giorno erano a Los Angeles e ci siamo incontrati, gli ho fatto vedere tutte le foto che avevo e… non ricordo di preciso chi ha pensato allo scrapbook, potrei averglielo menzionato io come un’idea vaga ma di sicuro ricordo che loro si sono subito entusiasmati, perché Shining è un film di fantasmi e avere a che fare con questa storta di oggetto fantasma, che documentava la storia dell’Overlook Hotel e che poi è stato tolto dal film finito ma è rimasto in qualche scena, come appunto una presenza fantasma anch’esso… Questa cosa gli piaceva moltissimo e hanno suggerito di usarlo per la raccolta delle foto. 

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Courtesy of the Stanley Kubrick Archive

Volevano anche riprodurre lo scrapbook originale, come mi aspettavo, ma gli spiegai che purtroppo non esiste più. Ce n’è una versione all’archivio ma non è quella che è stata usata per le riprese. Non so in effetti cosa sia, forse un prototipo per far vedere a Kubrick come sarebbe venuto. Al suo interno ci sono articoli ritagliati a caso da vecchi quotidiani inglesi e poi incollati sulle pagine. L’album di ritagli che si vede sul set, a guardare bene le foto di scena dove è aperto e i fotogrammi delle scene tagliate che ho rintracciato, ha degli articoli che non corrispondono affatto a quelli della copia conservata all’Archivio. Sono però stati conservati i testi degli articoli che sarebbero stati inquadrati, e qualche prova di impaginazione. Consegnai tutto questo a Michael e Mathias e la loro prima versione era molto più stilizzata, con espedienti grafici come il testo di questi articoli che pagina dopo pagina svaniva e si decomponeva… Non mi piaceva, non era quello che avevo in mente. Non volevo invadere il loro campo, ma alla fine, credo anche in considerazione del rispetto che loro avevano verso il mio lavoro con la Pixar, ne abbiamo parlato e abbiamo deciso che avrei fatto io i ritagli degli articoli. Così ho preso i testi che erano sopravvissuti e li ho impaginati secondo lo stile dei vecchi quotidiani americani, e anche quelli che erano già stati impaginati li ho rifatti, perché pensavo di poterli rifare ancora meglio. E ne ho scritti tanti altri, secondo quello stile, inventandomi storie su quello che poteva essere successo all’Overlook Hotel nel passato, inclusi articoli su Delbert Grady, la donna del bagno… Poi li ho stampati e li ho incollati sulle pagine, cercando una disposizione che fosse realistica per un libro di ritagli. Insomma, è stato un lavoro enorme, anche questo, e nonostante magari non si percepisca quando uno sfoglia il libro, mi ha preso davvero un sacco di tempo, con in testa l’idea di lavorare per Stanley Kubrick! Tenendo quello standard qualitativo. Michael e Mathias poi hanno avuto l’idea degli articoli che pagina dopo pagina si sono staccati e sono andati persi. Allora io ho rilanciato con l’idea che questi articoli mancanti avevano lasciato una sagoma più chiara, un po’ come quando stacchi i quadri dalle pareti di una vecchia casa e trovi la carta da parati dietro di loro che non si è scolorita come il resto. Insomma, è stata una bella collaborazione anche con loro, basata sul mutuo rispetto della nostra creatività. 

Gli sono molto grato per avermi concesso di occuparmi del layout personalmente: anche le foto, infatti, loro all’inizio le avevano messe quasi tutte, ed erano troppe, veniva tutto un po’ disordinato. Quindi ho pensato che doveva esserci una struttura anche per le foto, e le ho quindi scelte con cura e ordinate in base alla storia del film, separandole per capitoli con fogli di carta oleata, come il film è separato da quelle didascalie con i giorni e le ore. Così adesso c’è una sola foto per pagina, stampata bella grande. E anche il layout del libro col making-of, anche quello alla fine l’ho supervisionato io, lavorando a stretto contatto con loro. È stata una vera collaborazione: l’idea era loro, la qualità della carta e della copertina erano loro, come pure le font e gli aspetti più grafici, ma poi quali foto mettere e dove metterle l’ho deciso io. Insomma, un lavoraccio. 

Sì, ma si percepisce. Anche se i libri appaiono così puliti e ariosi e ben organizzati che sembra una cosa ovvia e facile, è proprio lì dietro che sta un sacco di lavoro per far sembrare che tutto sia stato messo nel posto ovvio e giusto. 

Ho fatto un conto a spanne l’altro giorno e ho visto che di tutte le foto che sono nel libro, senza contare i fotogrammi riprodotti, quindi diciamo le foto di scena che sono state scattate, un buon 75% non è mai stato pubblicato prima. E di questo 75%, un’altra bella percentuale non è mai stata vista da più di tre o quattro persone, ossia chi le aveva a casa. Quando ho parlato con Steven Spielberg, non solo perché sapevo che era stato sul set di Shining e volevo chiedergli cosa si ricordava ma anche perché volevo che fosse lui a scrivere la prefazione al libro – per accettare di farla, cosa che concede davvero raramente, voleva prima vedere il libro finito, e quando l’ha visto è rimasto sbalordito dalla quantità di foto che esistevano dalla lavorazione del film e che non aveva mai visto. 

Chi ha scelto gli oggetti da riprodurre come facsimile? Immagino che ci sia tu dietro la scelta di includere il copione di June Randall…

Già, quella è stata un’idea mia. Perché, quando Vivian me lo ha mandato… Mi è arrivato questo pacco per posta e l’ho aperto e sono morto. Avere questo oggetto tra le mani, un oggetto della produzione tra le mie mani al di fuori dal Kubrick Archive, a casa mia… era assurdo. Me l’aveva spedito per posta, non ci potevo credere. E quando l’ho sfogliato mi dicevo, è un peccato che non lo può vedere nessun altro, perché è ricchissimo, c’erano polaroid scattate da June e appiccicate sulle pagine con lo scotch, i suoi appunti su certe scene, altri scritti da Kubrick… Hai presente nel documentario di Vivian che lo si vede battere a macchina nelle pause delle riprese? Stava riscrivendo le battute dopo le prove con gli attori e quei nuovi dialoghi sono stati ritagliati e incollati sulle pagine di questo copione, perché erano l’ultima stesura della sceneggiatura. Così mi sono detto che sarebbe stato fico se avessi potuto riprodurlo come uno dei facsimile che fa la Taschen coi libri su Kubrick. Ne ho parlato con gli M/M e ovviamente l’idea gli è piaciuta, alla Taschen pure e Vivian mi ha dato l’autorizzazione per farlo. 

Mi pare che siano stati gli M/M a voler fare un libretto separato con i disegni di Saul Bass, giusto perché sono così belli e interessanti e non c’era modo di includerli nel testo principale. La stessa cosa per i disegni delle scenografie. Le caricature sono state una mia idea, come le pagine del dattiloscritto di Jack Torrance – anzi in effetti l’intera idea di avere la scatola di fogli da scrivere come contenitore per i facsimile è stata mia, perché ho pensato che sarebbe stato fico se il lettore si fosse trovato davanti questo oggetto, coi fogli battuti a macchina da Jack Torrance, tutti e 114 quanti sono conservati all’Archivio, riprodotti fedelmente. Avrebbe dovuto sfogliarli come Wendy per arrivare ai libretti che ci sono sotto. Mi sembrava fico. 

Lo è! Infatti come ho scritto nella recensione al libro, stavolta c’è un bilanciamento più sensato tra l’aspetto da gadget di queste edizioni da collezione e il contenuto del libro. La piacevolezza della lettura stavolta non è rovinata dalle idee di forma. 

Volevo fare una cosa anche elegante… per esempio ho deciso di non includere come facsimile un numero della rivista satirica MAD che fece una parodia di Shining. Mi pareva meglio non farlo. Comunque tu e i lettori potrete giudicare il tutto. 

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Bene, quindi adesso tu sai tutto il percorso creativo di Kubrick dietro il film. 

Per quanto sia possibile! [ride]

Da regista, sceneggiatore e montatore tu stesso, cosa hai imparato? 

Uhm… Come ho detto anche altrove, la cosa più importante che ho imparato è che Kubrick non era quel regista rigido e sempre sicuro come lo si dipinge. Era ovviamente meticoloso, ma non è che avesse già tutto pronto in anticipo. Faticava prima di ogni decisione creativa, era pieno di dubbi, aveva molti ripensamenti, non aveva tutte le risposte. Anzi, spesso gettava via cose che aveva fatto perché si rendeva conto che non andavano bene, che andavano ripensate da capo. È una cosa che capita a ogni regista, eppure tutti quanti pensano che Kubrick si immaginasse i film nella sua testa e li desse alla luce belli e pronti, così, un parto diretto dal suo cervello al mondo. Invece, da quel che ho potuto vedere studiando la lavorazione di Shining, e anche da quel che si può leggere nel diario che Matthew Modine ha tenuto durante Full Metal Jacket, era vero proprio il contrario. Kubrick non sapeva sempre cosa voleva, chiedeva opinioni a tutti, e in effetti su entrambi i film ha iniziato le riprese senza sapere come la storia sarebbe finita. 

Questo è vero anche per Eyes Wide Shut. In tutti e tre i suoi ultimi film ha trovato il finale mentre stava già girando. 

Anche le domande che rivolgeva a tutti, certo, spesso era perché voleva saperne sempre di più su questioni tecniche e succhiava la conoscenza di chiunque aveva attorno, ma spesso era anche perché lui stesso non aveva le risposte per quello che stava facendo e voleva sentire più opinioni possibili. È chiaro che alla fine è sempre stato lui l’arbitro, era lui il regista e quindi quel che è nel film è lì perché lui ha deciso che ci dovesse essere, ma tutto il processo creativo era una lunga lotta contro se stesso. E scoprire questa cosa l’ha preso più umano ai miei occhi. Non ha diminuito affatto la mia ammirazione per lui, mi ha però mostrato che anche lui era in fondo solo un uomo come tutti gli altri. Oddio, un uomo con dei gusti impeccabili per quanto riguarda il cinema, ma che come tutti gli altri registi o artisti era pieno di dubbi e si trovava ad agonizzare su ogni singola scelta creativa, senza avere spesso la minima idea di dove stesse andando. 

Parlando di scelte creative, ce n’è stata qualcuna che ti ha sorpreso? Voglio dire, qualcosa che hai scoperto che Kubrick ha fatto e che ti ha spiazzato, che tu magari avresti fatto diversamente…

Beh… non direi mai una cosa del genere su Kubrick! Ogni suo film è perfetto. Mi chiedevi via email se per caso secondo me Kubrick aveva sbagliato qualcosa… Non saprei. Forse avrebbe fatto qualcosa diversamente, o meglio, se avesse avuto più tempo. Ogni regista lavora contro il tempo e i soldi che ha a disposizione, e ci sono sempre così tanti fattori che giocano contro il tuo film e ti spingono a fare compromessi. Kubrick strutturava le sue produzioni in modo che potesse spenderci molto tempo, eppure sono sicuro che non fosse comunque mai abbastanza. Avrebbe speso vent’anni a fare 2001, ne avesse avuto modo, no? Direi che ha sempre fatto i film migliori che ha potuto fare all’interno dei confini dati dal tempo e dal budget. 

Riguardo il montaggio, ora che sai tutte le scene che sono state girate e quelle che non sono state montate e quelle che sono state montate e poi scartate via via, e quelle che sono state cambiate di posto… Qualche scelta ti ha sorpreso o ti ha spiazzato? 

Mi piacerebbe sapere perché ha tolto tutta la sottotrama dello scrapbook. Non ho trovato nessuna risposta per questa decisione. Sai che anche Diane Johnson era rimasta perplessa quando ha visto che non c’era nel film, perché era secondo lei un elemento fondamentale della storia, avrebbe spiegato come Jack diventava a poco a poco preda dell’Overlook Hotel. 

Sì, era il momento in cui l’eroe accetta il dono negativo, come la mela avvelenata in Biancaneve. Avrebbe reso il film ancor di più una favola gotica, una storia dell’orrore classica, con tutti i momenti canonici.

Che è esattamente come Diane ha approcciato la scrittura della sceneggiatura. Un’altra cosa che ho notato – tra l’altro solo di recente, non me ne ero mai accorto prima – hai presente nella versione americana, poco prima che Wendy trovi il manoscritto di Jack e ci sia la loro lunga discussione nella Colorado Lounge? C’è un’inquadratura di Jack seduto al tavolo mentre batte a macchina, la macchina da presa è dietro di lui e si avvicina lentamente. Ecco, non mi ero mai accorto che lì Jack non indossa la giacca di velluto con cui si vede per tutta la seconda parte del film. Indossa il maglione di lana blu scuro, che avevamo visto molto prima, quando fissa la finestra con quello sguardo da matto e fuori ci sono Wendy e Danny che fanno a pallate di neve. Al montaggio Kubrick deve aver pensato, adesso arriva questa scena così importante che inizia dal manoscritto di Jack ed è un sacco di tempo che non lo si vede davanti alla macchina da scrivere. Così avrà cercato nel girato se c’era qualche rimasuglio di scene con Jack al tavolo che non aveva usato. E in effetti, quella scena in cui fa lo sguardo da pazzo iniziava proprio con lui mentre scriveva il suo romanzo, poi si alzava e andava alla finestra. L’ha presa e l’ha usata molto dopo nel film. Non me ne ero mai accorto e adesso, sapendo tutto quello che è stato girato giorno dopo giorno, ho potuto ricostruire il motivo dietro questo piccolo improvviso cambio di costume di Jack. 

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A proposito di Jack Nicholson, ho sentito in un podcast che tu sconfessavi quella storia che gira su internet secondo cui Kubrick aveva ipotizzato il casting di Robin Williams e di Robert DeNiro nel ruolo di Jack Torrance, e dicevi che l’unica alternativa a Nicholson che è mai stata considerata era Kris Kristofferson. Però questo nel libro io non l’ho trovato. 

È perché è stata una cosa che ho scoperto piuttosto tardi nel percorso del libro. Era menzionata in uno scambio che ho rintracciato in alcuni documenti di un ex dirigente della Warner che erano andati all’asta qualche anno fa. Kris Kristofferson era il piano B nel caso in cui non fossero riusciti a stringere un accordo con Jack Nicholson. Purtroppo il libro era già in fase di impaginazione e non ho potuto inserire quest’informazione. 

Secondo te Kristofferson avrebbe fatto un buon Jack Torrance? 

Sarebbe stato come minimo un film molto, molto differente. Kristofferson era una grossa star in quel momento – e una delle preoccupazioni di Kubrick era che il film avesse successo, quindi voleva una star come protagonista. Anche Ryan O’Neal se ci pensi è una scelta un po’ strana per Barry Lyndon a meno che non consideri quanto fosse famoso come attore in quegli anni. Kubrick voleva che i suoi film incassassero bene al botteghino. E in effetti ha potuto scegliere Shelley Duvall per il personaggio di Wendy proprio perché aveva assunto Jack Nicholson, invece che sottostare al volere dello studio che preferiva qualcuno più di richiamo, come Jane Fonda. 

Comunque ho già pronta una lista di cose che vorrei aggiungere nell’edizione economica del libro, quando uscirà, se mi sarà concesso di apportare modifiche al testo. Perché continuo a scoprire cose anche adesso, tipo, hai presente quella poesia che in una scena tagliata Grady consegnava a Jack alla fine del loro dialogo nel bagno rosso? Pensavo che fosse una poesia scritta da Kubrick e invece è una citazione da Bruno Schulz. Un’altra cosa è il maglione di Danny con il disegno dell’Apollo 11. Pensavo che l’avesse realizzato Milena Canonero invece era un capo in commercio alla fine degli anni ’70, ho appena ricevuto una pubblicità ritagliata da un vecchio giornale con due bambini che lo indossano. E ho anche ricevuto un messaggio da una persona che dice di avere una lunga intervista registrata con Barry Nelson, l’interprete di Stuart Ullman, il direttore dell’albergo, in cui parla in dettaglio dell’epilogo perduto in cui Ullman visita Wendy e Danny ricoverati in ospedale. Nonostante abbia battuto tutte le piste e abbia fatto ricerche esaustive, qualcosa salta sempre fuori. 

Ovvio, succede con libri molto meno ricchi e complessi del vostro! Ma parlami dell’epilogo in ospedale e della scoperta incredibile che hai fatto all’Archivio. 

Allora, è noto che Kubrick spedì due montatori nei cinema di New York e Los Angeles per tagliar via con le forbici questo epilogo dalle copie che venivano proiettate in sala. Una cosa che credo sia unica nella storia del cinema. Nonostante abbia cercato in lungo e in largo, non sono riuscito a trovare questi pezzi di pellicola tagliata. Temo a questo punto che siano davvero andati perduti, o distrutti. Comunque quando ero all’Archivio mi sono imbattuto in un raccoglitore ad anelli che conteneva i fotogrammi di ogni scena girata. Shining è stato montato in modo tradizionale, con la moviola, marcando la pellicola coi pennarelli e tutto il resto. Gli assistenti al montaggio avevano preparato questi raccoglitori in cui avevano preso i primi fotogrammi di ogni inquadratura che Kubrick aveva girato, li avevano tagliati dalle stampe dei giornalieri, e li avevano inseriti nelle pagine. Se era una ripresa con la macchina in movimento, ne avevano presi alcuni anche verso la metà del ciak e altri verso la fine. In questo modo Kubrick poteva sfogliare rapidamente queste pagine coi fotogrammi e farsi un’idea di tutte le inquadrature che aveva a disposizione per aiutarsi a decidere quali usare nel montaggio. Era una specie di prontuario visivo di tutto il girato. Ed era finito in chissà quale scatola dell’Archivio, perché neppure loro sapevano che esisteva. L’ho beccato per caso. Sono quindi subito andato a sfogliare le ultime pagine e immagina la mia reazione quando ho visto che c’erano i fotogrammi dell’epilogo all’ospedale. M’è proprio preso un colpo. 

E ti credo! 

Quindi nel libro ci sono i fotogrammi per ogni inquadratura di quella scena. Come anche per tutte le scene tagliate. I negativi sono stati bruciati da Leon Vitali su ordine di Kubrick – tra l’altro posso dirti che Leon ha proseguito nell’opera bruciando anche i negativi del girato non usato di Eyes Wide Shut.

Oh no! Su questo in realtà ci speravo… che almeno quelli di Eyes Wide Shut fossero scampati al diktat di Kubrick. 

No, Leon ha voluto seguire quello che era stato il volere di Kubrick anche dopo che era morto. Comunque, grazie a questi raccoglitori ad anelli, nel libro ci sono i fotogrammi delle inquadrature girate e non usate, che è tutto quello che è sopravvissuto per Shining. Alcuni erano in condizioni pessime, perché ovviamente erano stati messi lì in questi raccoglitori, ed era materiale d’uso, non avevano intenzione di preservarli: alcuni erano graffiati, altri molto sbiaditi… Ma i tecnici alla Taschen hanno fatto un lavoro di restauro incredibile e ora sono delle immagini pulite, vivide, fantastiche. 

Puoi dirmi qualcosa su Vivian Kubrick? Mi ha sorpreso vedere che ha collaborato al libro, visto che di recente aveva dimostrato di essersi completamente distaccata dalla famiglia e dalle cose relative a suo padre. 

Vivian è stata un’altra di quelli che ho impiegato più tempo a rintracciare. Sapevo che aveva vissuto a Los Angeles per diversi anni, le ho scritto a quell’indirizzo ma le lettere tornavano sempre indietro. Non ricordo alla fine come ho fatto a beccarla. Abbiamo parlato al telefono e lei mi ha invitato in Florida, dove viveva all’epoca, e abbiamo passato due giorni interi a chiacchierare. Quando ha lavorato a Shining aveva 17 anni – ha compiuto i 18 anni proprio durante la lavorazione – e aveva tantissimi ricordi, ancora molto freschi nella memoria. Ha raccontato molto anche del suo documentario, ovviamente. 

Vivian Kubrick al banco di montaggio.

E quindi adesso sai che devo chiederti del girato di Vivian, perché alcune scene che lei non aveva montato sono state incluse nel documentario A Life In Pictures e altre vengono proiettate durante le tappe della mostra itinerante. Ce ne sono altre? 

Posso dirti questo. Quando ero al Kubrick Archive, un giorno mi hanno accompagnato dietro, nella stanza climatizzata dove è conservato il materiale e a cui di solito il pubblico non ha accesso, e lì ho visto che erano conservati anche tutti i negativi del girato di Vivian, sia per il documentario di Shining, sia per quello rimasto incompiuto di Full Metal Jacket. Quindi il girato originale in 16mm esiste, è sopravvissuto al tempo, c’è tutto. L’altra cosa che ho scoperto però è che il suono, che Vivian aveva registrato su nastri Nagra, è andato perduto. Quindi il girato ora è muto. Tuttavia, quando montavano Shining avevano messo su un sistema che prevedeva il riversamento su videocassette Betamax di tutti i giornalieri con il suono sincronizzato, e Vivian usò lo stesso sistema per montare il suo documentario, per cui l’audio è stato conservato come registrazioni su queste videocassette. Quindi in teoria, qualcuno con molto tempo a disposizione, potrebbe riaccoppiare il girato in pellicola con questo audio del Betamax. Il problema è che la famiglia Kubrick lascia a Vivian il potere decisionale sul suo girato e Vivian è assolutamente determinata a non farlo vedere perché è convinta che suo padre non avrebbe voluto. Per cui, fintanto che Vivian è in vita, non credo che sarà possibile vederlo. Dopo, chissà. Magari i miei figli avranno modo finalmente di vedere tutto quanto. Tra l’altro Vivian non sapeva che i negativi fossero stati conservati e quando gliel’ho detto si è piuttosto arrabbiata, era convinta che fosse stato tutto bruciato assieme al girato di suo padre. Adesso comunque i negativi sono al sicuro, non credo siano sempre all’Archivio ma so che saranno conservati e protetti. Per fortuna, aggiungerei, perché sarebbe proprio una disgrazia se venissero distrutti. Sai quante ore sono? 45. 

Quante?!? 

Sì, circa 45 ore di riprese sul set. Avevo perfino chiesto a Vivian se potevo estrarne dei fotogrammi da stampare nel libro, perché ne avevo trovati alcuni nell’Archivio ed erano bellissimi, una volta scannerizzati e ripuliti erano davvero fantastici. Speravo che me l’avrebbe fatto fare, no? Gliel’ho chiesto, ma non ha voluto nemmeno questo. È l’unico rimpianto che ho riguardo al libro: sapere che ci sono queste migliaia di immagini e che non ho potuto usarle. Il libro non ne risente in realtà, ma sarebbe stato più ricco se ci fossero state. 

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Courtesy of Murray Close

Bene, ti ho torchiato abbastanza. Direi che possiamo chiudere la nostra conversazione. 

No, figurati, per me è un piacere chiacchierare di Shining. Poi tu sei una delle poche persone al mondo che ha già letto tutto il libro ed ero molto curioso di sentire che ne pensavi. 

Beh, sono state due settimane di lettura ininterrotta. Non riuscivo a smettere. Ho scoperto molte cose che non sapevo, specialmente nella fase di scrittura della sceneggiatura. E i fotogrammi delle scene tagliate… vederli è stato proprio entusiasmante. 

Bene, perché anche io ho scoperto tantissime cose nuove durante il lavoro sul libro e so come ci si sente, ho imparato a conoscere quel brivido che arriva quando scopri qualcosa di nuovo, e volevo sentire se anche un lettore appassionato come te l’aveva provato. 

Eccome! E sono convinto che lo proveranno anche tutti i lettori. 

Dicevo con mia moglie, è buffo fare queste interviste per promuovere un libro che al momento solo mille persone al mondo leggeranno… Ma la versione economica arriverà presto. 

Sai dirmi quando? 

La Taschen ancora non ha annunciato nulla. Quello che di solito fanno è aspettare che le copie dell’edizione da collezione vadano esaurite e poi iniziano a pensare all’edizione economica. Posso però dirti che ho già iniziato a fare pressioni, fin su ai vertici della casa editrice, affinché la facciano uscire il prima possibile. Perché so che ci sono un sacco di persone che vogliono leggere il libro e ora sono deluse dal fatto che non possono farlo. Spero che sia tra sei mesi. Ci sarà comunque da fare un lavoro di reimpaginazione, per fondere i due libri in uno e decidere cosa fare dei facsimile. Spero che sia possibile includere tutto. 

Mi immagino che ti avranno chiesto tutti di mettergli da parte la copia numero 237. 

No, quella me la sono già tenuta per me! 

Ringrazio Lee Unkrich per la disponibilità e Olivia Byron di TASCHEN Italia per la gentile concessione all’uso delle fotografie. 

29 marzo 2023

The Ken Adam Archive

Doppietta dalla Taschen in questo mese. Dopo l'uscita del mastodontico Stanley Kubrick's The Shining a cura di Lee Unkrich, arriva un altro libro da collezione, dedicato questa volta al designer Ken Adam. The Ken Adam Archives è un volume di 360 pagine in grande formato (36cm x 36 cm), rilegato in stoffa iridescente e con copertina in stampa lenticolare – un'immagine del progetto per il set del film Agente 007 - Si vive solo due volte che, cambiando l'angolo di visione, rivela i vari passaggi di progettazione, dal primo schizzo al modellino. 

Poiché alla Taschen si devono essere accorti che i loro libroni sono anche oggetti da mettere in mostra, questo volume arriva corredato da un leggio in plastica trasparente. Il prezzo è solo leggermente più abbordabile di quello del libro su Shining: 850€ per un'edizione limitata a 1200 copie, ciascuna firmata da Ken Adam prima della sua scomparsa il 10 marzo 2016 (il che dà anche un'idea del tempo di lavorazione e distribuzione di questi libri). 


Il libro è scritto da Christopher Frayling, biografo di Ken Adam, che aveva già raccontato il lavoro dello scenografo in altre due pubblicazioni: Ken Adam: The art of production design, uscito nel 2005 per la Faber & Faber, e Ken Adam Designs the Movies: James Bond and Beyond, edito nel 2008 dalla Thames and Hudson. Anche questo libro Taschen è una lunga intervista con Adam accompagnata da disegni e fotografie provenienti dal suo archivio personale. L'intervista è interrotta da schede dedicate a ciascun film, che presentano una selezione ragionata dei bozzetti e dei disegni che Adam ha realizzato per la progettazione delle relative scenografie. Aprono e chiudono il libro due testi di Frayling che inquadrano il lavoro di Adam da un punto di vista storico e artistico. 

Il libro è introdotto da un testo critico di Rainer Rother, il Direttore Artistico della Deutsche Kinemathek. The Ken Adam Archive è infatti il risultato della decisione che Ken Adam ha preso nel 2012 quando ha affidato alla cineteca di Berlino il proprio archivio personale: oltre 5600 disegni, documenti di produzione, lettere e fotografie dai set degli oltre 70 film a cui Adam ha lavorato sono ora conservate e catalogate come parte delle collezioni permanenti della cineteca. L'archivio è anche in parte consultabile online: potete tra gli altri ammirare moltissimi dei disegni realizzati da Adam per progettare la celeberrima Centrale Operativa (ormai conosciuta più comunemente col termine inglese di War Room) del Dottor Stranamore

© Deutsche Kinemathek – Ken Adam Archiv

Il libro dedica ovviamente ampio spazio alla collaborazione tra Adam e Kubrick, per Il Dottor Stranamore e Barry Lyndon, film che portò ad Adam il primo dei suoi due Oscar. Rispetto al primo libro di Frayling, qui il racconto è un po' più approfondito; le note di questo The Ken Adam Archive dicono che Frayling ha intervistato Adam anche negli ultimi anni della sua vita e lo ha aiutato a selezionare il materiale da riprodurre nel libro; la consultazione dei vari bozzetti deve aver aiutato il riaffiorare di aneddoti alla memoria. Frayling ha inoltre potuto consultare i documenti al Kubrick Archive ed è così in grado, rispetto a prima, di offrire un calendario più preciso di alcuni eventi precedentemente trattati in modo un po' confuso, come il drammatico abbandono di Barry Lyndon da parte dello scenografo per via dell'esaurimento nervoso che lo colpì a inizio 1974. 

Vengono anche citate nel testo diverse lettere che Kubrick e Adam si sono scambiati durante il corso degli anni, che rivelano ad esempio come Kubrick avesse offerto allo scenografo anche Arancia Meccanica e avesse probabilmente intenzione di lavorare assieme pure per Shining. Dopo l'esperienza molto intensa del Dottor Stranamore, Adam ci ha sempre pensato molto attentamente prima di accettare un invito di Kubrick. 


Ho fin qui parlato di Ken Adam dandogli la qualifica di scenografo, anche se questo termine risulta un po' riduttivo per esprimere il raggio di azione di questa figura professionale. Il termine inglese production designer rende meglio l'idea. Il production designer è infatti colui che inventa e dà forma al mondo che il film vuole raccontare: deve selezionare località in cui ambientare scene in esterni, ed eventualmente camuffarle affinché sembrino adatte al periodo storico richiesto; deve scegliere i palazzi in cui girare le scene in location; e infine – il lavoro preferito da Ken Adam – deve disegnare e progettare e costruire ambienti e scene da zero, dentro teatri di posa, per le scene in studio. 

Nelle parole di Ken Adam: 

In linea teorica, il production designer dovrebbe sovrintendere a tutto ciò che è visivo: i set, le location, gli oggetti di scena, il coordinamento dei costumi con la scenografia... Il mio lavoro inizia con la lettura del copione e con come lo interpreto visivamente. Cerco degli esterni e degli interni adatti, e progetto gli ambienti da ricostruire in studio. Sono anche responsabile della loro costruzione e devo gestire tutto il personale dei reparti scene e costumi... Il regista è il capitano della nave e io, idealmente, devo funzionare come i suoi occhi.

C'è un battuta nel libro che concretizza benissimo questa onnipresenza di Adam. Esausto dalla mole di lavoro preparatorio per Barry Lyndon, Adam si sentì dire da Kubrick che doveva anche farsi carico del design dei costumi "because you're the fucking production designer!" "E così dovevo essere io ad approvare le stoffe, i colori, i ricami, i cartamodelli, i tagli, il cucito... come i costumi si abbinavano alle scenografie... Ovviamente io lavoro sempre a stretto contatto coi costumisti, ma stavolta si trattava di creare dei vestiti da zero, il che comportava un enorme lavoro di supervisione." 


The Ken Adam Archive è di fatto il testo definitivo per commemorare la vita e le opere di Ken Adam, grazie all'apparato iconografico in larga parte inedito. Frayling però l'ha scritto interamente sotto forma di domande e risposte: le une scorrono dentro le altre, senza apparente editing. Ci sono infatti frequenti interiezioni e Adam si lascia spesso andare a digressioni aneddotiche. La sensazione che se ne ricava è quella di assistere alla loro conversazione in diretta. Non che sia sgradevole, intendiamoci, ma è il terzo libro che i due fanno a questa maniera e anche per varietà avrei gradito un approccio più ragionato e ripulito. Una prospettiva più storica e meno immediata, accompagnata magari da testi critici, sarebbe stata, credo, anche un miglior tributo al lascito colossale e influente di Ken Adam. 

Sul sito della Taschen potete trovare altre informazioni sul libro, nonché ordinarlo. Per chi non avesse voglia di spendere una piccola fortuna in un libro da collezione e non volesse attendere la probabile edizione economica di questo volume, Ken Adam: The art of production design del 2005 resta un valido libro per capire il contributo di un production designer ai film su cui poggia il suo occhio. 

© Boris Hars-Tschachotin, “THIS IS THE WAR ROOM” (2017).
Film still by Andreas-Michael Velten


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