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21 marzo 2023

Stanley Kubrick's The Shining, di J.W. Rinzler, a cura di Lee Unkrich per Taschen

Qualche settimana fa ho ricevuto dalla Taschen una copia in anteprima del libro Stanley Kubrick’s The Shining, che ha iniziato a esser distribuito a coloro che l'avevano prenotato a partire dal 7 marzo. Si tratta del libro a cui Lee Unkrich, il regista della Pixar premiato con l’Oscar per Toy Story 3 e Coco, stava lavorando da dieci anni. È un’opera monumentale, di oltre 2.200 pagine, in un’edizione da collezione limitata a 1000 copie numerate e dal prezzo altrettanto imponente di 1.500€

Quarto nella serie di volumi deluxe pubblicati dalla Taschen in collaborazione con la Warner Bros. e la Kubrick Estate, questo libro arriva dopo The Stanley Kubrick Archives del 2005 (150€), Stanley Kubrick’s Napoleon del 2009 (500€, edizione limitata a 1.000 copie) e The Making of Stanley Kubrick’s 2001: A Space Odyssey del 2014 (750€, edizione limitata a 1.000 copie firmate da Christiane Kubrick, con due edizioni super limitate a 250 copie cadauna per 1500€ con quadretto di Brian Sanders). 

Ognuna di queste pubblicazioni ha testato i limiti del concetto libro, sconfinando spesso nel campo della gadgettistica, in particolare coi dieci libri incastonati in un tomo in stile ottocentesco per il Napoleon e il libro-monolite per 2001, entrambi ricchi di riproduzioni facsimile di documenti di produzione. 

Questo Stanley Kubrick’s The Shining non è da meno: si presenta come una scatola dal peso di 19 chili e 900 grammi, al cui interno sono presenti vari libri e oggetti. 

COSA C’È NELLA STANZA 237 – EHM, NELLA SCATOLA

Il primo libro è un volume scritto da J.W. Rinzler, autore di diversi making-of di prestigio, dalla saga di Star Wars a a quella di Alien. In 910 pagine, Rinzler racconta la genesi, la lavorazione e il successo di Shining, dalla prima lettura del romanzo di Stephen King da parte di Kubrick fino al ruolo che il film si è guadagnato recentemente nella cultura pop, attraversando le fasi di sceneggiatura con Diane Johnson, le estenuanti riprese, la frenetica post-produzione e l’uscita inizialmente deludente nelle sale di tutto il mondo. 

Si tratta di un resoconto dettagliatissimo: una cronistoria giorno per giorno dal 1976 al 1980, a partire da documenti di produzione e interviste a membri del cast e della troupe. 

I capitoli sono inframmezzati da sezioni tematiche di approfondimento: Kubrick e gli attori, Kubrick e l’analogia degli scacchi, le sue abitudini d’abbigliamento, il suo perfezionismo, la relazione con la troupe, l’esperienza di Shelley Duvall e quella di Danny Lloyd. A corredo del testo si trovano numerose foto di scena e occasionali riproduzioni di documenti di produzione: pagine del copione, fogli di chiamata sul set, appunti di Kubrick sul montaggio, ecc.  

Il secondo libro è interamente fotografico ed è modellato sul famigerato album di ritagli (“scrapbook” in inglese) che l’Overlook Hotel faceva trovare d’improvviso una mattina sulla scrivania di Jack Torrance per irretirlo nei suoi piani diabolici, facendogli leggere gli articoli di cronaca sui delitti e i misteri che avevano avuto luogo tra quelle mura nei decenni passati. La sottotrama relativa a questo oggetto è stata tagliata in fase di montaggio e nel film finito si può intravedere l’album poggiato sulla scrivania giusto in un paio di inquadrature. 

Poiché lo scrapbook originale è andato perduto, Lee Unkrich ha ricostruito alcuni di quei vecchi articoli di giornale, interpretando quella che era l’idea originaria di Kubrick, e li ha sistemati nelle prime pagine del libro facsimile come sarebbero stati nell’album. Fin qui, un giochino. Le pagine seguenti però presentano una collezione di centinaia di fotografie dal set mai viste prima, stampate in grande formato, con didascalie esplicative. 


Tra i due libri è adagiata una scatola, modellata su quella che conteneva le risme di fogli di carta su cui Jack batteva a macchina il suo folle romanzo. Al suo interno ci sono appunto quelle pagine dattiloscritte, con la frase “All work and no play makes Jack a dull boy” (“Il mattino ha l’oro in bocca” nella versione italiana) ripetuta senza fine in varie configurazioni. Lee mi ha detto di averle sistemate meticolosamente nello stesso ordine in cui appaiono nel libro quando vengono sfogliate da Wendy. Se tra voi c’è qualcuno che acquisterà la copia faccia quindi attenzione a non mescolarle! 

Scansato il capolavoro di Jack Torrance, troviamo una riproduzione facsimile del copione del film appartenuto a June Randall, la segretaria di edizione, coi suoi freghi di penna per cancellare alcune battute tagliate durante le riprese, ritagli incollati per sostituirne altre, e polaroid per la continuità attaccate con lo scotch ai margini. Lee lo ha ricevuto da Vivian Kubrick. 

Due volumetti con copertina nera contengono gli schizzi che il grafico Saul Bass fece per la locandina del film e alcuni bozzetti disegnati probabilmente dallo scenografo Roy Walker per la progettazione dell’Overlook Hotel prima che Kubrick decidesse di copiare pedissequamente l’Ahwahnee Hotel del Parco Nazionale di Yosemite in California. 

Chiude l’opera un terzo volumetto, in bianco, facsimile di quello che il truccatore Tom Smith regalò come souvenir ai membri della troupe alla fine delle riprese, contenente le sue caricature (i miei fedelissimi sapranno che avevo incluso una manciata di queste caricature nel mio Stanley Kubrick e Me, perché Emilio le aveva conservate come fotocopie dopo che uno dei gatti di Stanley le aveva firmate a schizzo, diciamo così). 

I PRO 

I punti di forza del libro sono parecchi, e indubbiamente maggiori della media degli altri volumoni Taschen. 

Parto subito col dire che è così che si deve fare per scrivere un libro sulla realizzazione di un film: si vanno a intervistare tutti, ma proprio tutti coloro che a quel film ci lavorarono, si scandagliano i database dei vari quotidiani e riviste alla ricerca di articoli pubblicati nel corso degli anni, e si visitano gli archivi dove sono custoditi documenti di produzione. 

In questo caso le interviste sono state condotte per la maggior parte da Lee Unkrich, ma anche Rinzler ha contribuito con lunghe conversazioni con Christiane Kubrick e Jan Harlan, tra gli altri. Così a occhio, l’unico con cui non hanno parlato è Kubrick. 

I documenti di produzione provengono per la grandissima parte dallo Stanley Kubrick Archive di Londra, ma Lee ha visitato anche altri archivi, tra cui la Herrick Library di Los Angeles per le Saul Bass Papers. 

La mole di informazioni presenti nel libro-cronistoria è impressionante. Se è bastata a me (anzi m’è avanzata), basterà anche a voi. Fondamentalmente è come avere a disposizione un diario di bordo dell’impresa di Stanley Kubrick. Ci sarebbero voluti mesi per orientarsi tra il materiale su Shining presente all’Archivio e avere un’idea complessiva della lavorazione: con questo libro tra le mani, nella settimana e mezzo che c’ho messo a leggerlo, sono a posto. Posso andare all’Archivio per approfondire certe cose, se proprio. 

Ho trovato particolarmente buono l’accento sui cambi di idea di Kubrick: dal racconto si vede benissimo quanto ogni decisione che prendeva era stata ponderata a lungo ed era la sintesi migliore tra svariate idee alternative. Vale soprattutto per i due momenti cruciali della stesura della sceneggiatura – sono presenti riassunti di ogni copione e scaletta che Kubrick e Diane Johnson hanno prodotto, più schemi per puntualizzare le scene cambiate da lui in fase di riprese – e del montaggio, con Kubrick che butta via, accorcia o cambia di posto a scene e sequenze. 

Un altro filone molto interessante che attraversa la cronistoria è il rapporto di Kubrick con la Warner Bros. Grazie alla corrispondenza interna tra i dirigenti e le loro lettere (piccate, irritate, rispettose, speranzose, annoiate) con Kubrick, si vede molto bene come uno dei fronti aperti di quella lotta contro tutto e tutti che bene o male sempre è la lavorazione di un film fosse proprio con la major che finanziava e distribuiva i suoi film. Innumerevoli sono gli stratagemmi di Kubrick per fare sostanzialmente come gli pareva: consegnare il copione all’ultimo minuto, consegnare il budget perfino dopo, quando ormai non aveva più molto senso per la Warner averlo, nascondere il vero piano di produzione per non allarmarli, non scrivere mai, da nessuna parte, la data prevista per la fine delle riprese… 

Il pezzo meglio del libro (forse; dipende dalle ossessioni di ciascuno) è un capitolo alla fine della sezione sul montaggio, in cui c’è un elenco di tutte le scene che Kubrick ha girato, ma non montato. È arcinoto il fatto che il regista bruciasse la pellicola non usata una volta finito di montare, anche i negativi, in modo che nessuno potesse mai più alterare la sua opera. E però… scoperta clamorosa! In una scatola dell’Archivio che non aveva niente a che fare con Shining, Lee Unkrich ha trovato per caso un raccoglitore ad anelli contenente i fotogrammi stampati di ogni punto macchina che Kubrick aveva girato. In un’epoca di montaggio ancora sulla moviola, dove era un processo lungo e laborioso andare anche solo a consultare un rullo di pellicola per rivedere una particolare scena, questo album di fotogrammi forniva un agile prontuario per ricordarsi quali inquadrature erano a disposizione per ogni scena e iniziare quindi mentalmente a comporre una sequenza, senza la necessità di caricare i rulli sul banco montaggio. Possiamo così vedere, VE-DE-RE – ne dico una tra tante – l’epilogo in ospedale con Ullman che va a trovare Wendy e lancia a Danny la palla da tennis gialla che avevamo visto rotolare inspiegabilmente per i corridoi dell’albergo. Brividi. (Lee mi ha detto che gli è preso un colpo quando ha trovato questo raccoglitore all’Archivio. Ti credo!) 

TM & © WARNER BROS. ENTERTAINMENT INC. (s22)
Courtesy of the Stanley Kubrick Archive

In definitiva, le buone notizie sono due: il materiale raccolto e presentato è tantissimo e validissimo, e per una volta – grazie a Lee che del libro non è l’autore, ma l’ideatore, il curatore, in sostanza il regista – le assurdità di queste edizioni da collezione della Taschen sono state tenute a bada. Non solo nel reparto ephemera o memorabilia che dir si voglia c’è meno fuffa del solito ma addirittura il copione scelto per la riproduzione in facsimile per la prima volta ha davvero senso. È stato perfettamente inutile riprodurre i copioni di 2001 e del Napoleon, il secondo peraltro raccattabile online, poiché erano stampe intonse, con al massimo un paio di sottolineature. Il copione di June Randall invece è un oggetto di valore proprio perché contiene i suoi appunti e ha incollate tra le pagine le sue polaroid, perché mostra il suo lavoro quotidiano, perché è insomma un oggetto unico che era impossibile vedere altrimenti. 

Soprattutto, questa volta, i libri sono libri. La cronistoria è stampata in un volumetto di dimensioni maneggevoli, non solo bello (adoro i bordi rosso-sangue delle pagine) ma anche comodo da sfogliare. E il libro di fotografie è grosso, perché le foto sono stampate belle grandi, una per pagina, ma non costringe a quelle acrobazie assurde del libro su 2001 né ti invade casa come quello sul Napoleon

I CONTRO 

I punti dolenti sono riassumibili tutti sotto una critica a come il libro-cronistoria è stato scritto. 

L’ordine cronologico degli eventi è mantenuto in modo talmente caparbio da minare sovente il gusto del racconto e talvolta anche la comprensione di un determinato argomento. Non giova né alla lettura né alla chiarezza interrompere un evento nel giorno X per poi continuarlo due giorni dopo, quando nel mezzo non succede nulla che non potesse essere posticipato leggermente. Inoltre, la cronologia è un espediente strutturale a fortissimo rischio noia: sfortunatamente questo libro non fa nulla per scansare tale rischio e il testo risulta una lunghissima sequela di micro-eventi, incatenati l’uno dietro l’altro, in una litania costante e monotona. Non c’è mai un guizzo, uno snodo narrativo, un momento che ecciti l’attenzione. Non c’è in effetti neppure un inizio e una fine, né per i singoli episodi (le riprese della tal scena), né per i temi ricorrenti (tipo “Kubrick contro la Warner”), né per l’intero lungo resoconto dei quattro anni di lavorazione, che inizia e finisce così, solo perché inizia e perché finisce. Detta brutalmente, questa cronistoria è la messa in prosa d’un calendario

La cosa sorprendente (e un po’ sconfortante) è che, ad ascoltare le interviste promozionali di Lee Unkrich agli eventi organizzati dalla Taschen e a diversi podcast di cinema, il resoconto degli eventi che ne esce è molto ben strutturato e talvolta perfino appassionante, denso di piccole digressioni divertenti e aneddoti che restano impressi. C’era insomma un modo avvincente di scrivere questo making-of, ma non lo abbiamo avuto. In teoria la responsabilità della scrittura è di J.W. Rinzler, con Lee in ruolo di editor, ma in questo caso esito a puntare il dito perché Rinzler è venuto a mancare nel 2021 e non può rispondere a domande o critiche. Simone Odino, che ha letto altri libri di Rinzler, mi fa comunque sapere che lo stile piatto e asciutto di questo Stanley Kubrick’s The Shining sembrerebbe piuttosto in linea con gli altri suoi scritti. 

A volte, nelle mie recensioni ai libri che sono usciti in passato, ho criticato una certa sovrabbondanza d’opinioni dell’autore a scapito dei documenti e delle informazioni fattuali. Stavolta farò un’osservazione opposta: tutto è presentato in modo talmente neutro e imparziale da rendere difficile farsi un’idea precisa su certi eventi. Ad esempio, l’annosa questione dei tanti ciak: se sperate di avere la risposta definitiva, cercate altrove. Qui si presentano ricordi della troupe giustapposti ai documenti di produzione e non si cerca mai di conciliare la discrepanza: tizio dice che fecero 40 ciak, caio ne ricorda 60, il rapporto di fine giornata si ferma a 23 ma la segretaria di edizione è convinta fossero 55. Quindi? Alla fine tocca restare col dubbio. Trovo che un autore di saggistica non debba limitarsi a presentare i dati, ma sia chiamato offrirne una propria interpretazione ragionata. 

Un altro difetto affine è l’incapacità di soppesare l’importanza dei vari contributi: forse per troppo zelo nel voler preservare tutte le risposte di tutte le persone intervistate, capita spesso che due o tre testimoni offrano la loro prospettiva su uno stesso episodio, aggiungendo veramente molto poco. Sarebbe stato molto meglio – meno noioso, più incisivo – scegliere un solo portavoce per ogni singolo momento da raccontare. (Lee dice che è esistita una bozza del libro più lunga ancora, con qualche centinaio di pagine in più. Non ne voglio sapere nulla.)

Un lavoro di cernita avrebbe anche liberato spazio per darlo a Kubrick. Perché in effetti la voce di cui si avverte la mancanza in questo libro è proprio la sua. Intanto le citazioni tratte dalle sue interviste non sono molte, e sono bene o male sempre le solite – dal Ciment, dalla chiacchierata con John Hofsess, da quella con Vicente Molina Foix; ne ho altre, pochissimo o mai lette, davvero migliori, più illuminanti. E poi ci sono troppe poche fotografie o estratti dai suoi bloc notes. Ad esempio, non mi pare ci sia nulla dalla sterminata mole di appunti che Kubrick prese leggendo il romanzo di King per la prima volta, e sappiamo quanto invece considerava prezioso il primo incontro con una nuova storia: “You must preserve the shock of the first encounter as your yardstick.” Questi documenti sono sempre i più rivelatori, e in questo libro in effetti sono proprio pochini. In favore di bellissime foto mai viste prima, okay, ma sempre pochini. In questo reparto, il famigerato libro del Napoleon faceva meglio. 

TM & © WARNER BROS. ENTERTAINMENT INC. (s22) 
Courtesy of the Stanley Kubrick Archive

LE PULCI 

A un libro che si presenta come il resoconto definitivo della lavorazione di Shining, tocca per forza fare le pulci. Non a tutti sembreranno cose rilevanti, e va bene così.  

Ci sono alcune ripetizioni che non posso non attribuire a un editing distratto – ad esempio lo stesso episodio viene raccontato da persone diverse a distanza di pochissime pagine oppure la stessa foto viene stampata sia nel libro di testo che nello scrapbook. È una cosa che non dovrebbe succedere in nessun libro, e figuriamoci in un volume ten-years-in-the-making e in edizione deluxe. 

Le fonti sono elencate solo con un elenco alfabetico alla fine. È impossibile, o diciamo possibile con molto sforzo (ma comunque non sempre ci sono riuscito), rintracciare la fonte di una particolare dichiarazione virgolettata. E per le informazioni provenienti dagli archivi la fonte è del tutto assente: è impossibile, stavolta proprio impossibile, identificare il documento citato o sapere almeno se è custodito al Kubrick Archive o da qualche altra parte. Capisco l’esigenza di conciliare le informazioni da ricercatore con la natura generalista del libro, ma esistono sistemi ibridi che funzionano abbastanza bene. 

Avrei gradito che uno di quei capitoli tematici in mezzo alla cronistoria fosse stato dedicato al debunking dei miti che circondano la lavorazione del film. Certo, alcune risposte si trovano sparpagliate tra le pagine, ma sarebbe stato utile averli a portata di mano, e ben evidenziati.  

Ho cercato di trattenermi fin qui, via, ora non la reggo più: i due designer della M/M (Paris) riescono ogni volta incredibilmente a superare loro stessi, realizzando font e copertine sempre più brutte. So’ doti anche queste. Non saprei nemmeno da dove cominciare, se dai nomi degli autori illeggibili (si capisce Kubrick per abitudine), dai fogli finto-sporchi d’inchiostro che rendono tutto sudicio e repellente o dall’incomprensibile immagine (cos’è la cornice gialla? E l’interno celestino?). Forse però sì, penso che l’elemento davvero notevole sia quel nastro rosso messo lì a casaccio che non si capisce cosa sia, infilato tra due fogli di carta, e che solo dopo un bel po' di sforzo si riconosce comporre la parola Redrum. Se la metafora che intendevano usare era quella del labirinto (così almeno dicono), il BFI aveva fatto molto di meglio con la copertina disegnata da Mark Swan per la monografia della serie Classics.

LE CHICCHE 

Gli aneddoti gustosi si sprecano (anche se affogati in quest’oceano di racconti fattuali e neutri). Selezione casuale di quelli che mi sono rimasti impressi (altri li trovate nell’articolo che ho scritto per Il Giornale, in edicola sabato 25 febbraio). 

Il calore generato delle centinaia di punti luce del set era così forte che tempo dieci minuti avevano tutti la bocca secca; in certi set i tecnici stavano in costume da bagno e le comparse si toglievano i maglioni di lana appena Kubrick dava lo stop. 

La nebbia artificiale era densissima, la stessa che veniva usata nella Seconda Guerra Mondiale per nascondere i sommergibili: quando il vento soffiava nella direzione sbagliata, la spingeva sull’autostrada lì vicino dove si creavano code chilometriche. 

Patsy Kensit fu provinata per il ruolo di una delle figlie di Grady prima che fossero scelte le gemelle Burns (chi ha più di 40 anni se la ricorderà).

Christopher Lloyd era la prima scelta di Kubrick per il ruolo del barman; non fu possibile trovare un accordo col suo agente e Kubrick ripiegò su Joseph Turkel, che non sentiva dai tempi di Orizzonti di Gloria. (A margine, per gli amanti dell’enigmistica: con Christopher Lloyd nella parte di Lloyd sarebbero state ancor più numerose le bizzarre coincidenze sui nomi: Jack Nicholson per Jack Torrance, Danny Lloyd per Danny, Stanley Kubrick e Stephen King, ecc. ecc.)

Il perfezionismo kubrickiano: nella scena dell’incubo di Jack, Nicholson aveva segnati sul pavimento 18 punti da toccare con mani, gomiti e ginocchia per governare i suoi movimenti come voleva Kubrick. “Certi attori sarebbero impazziti,” dice Nicholson, “ma a me piaceva, era come una sfida.” 

Nicholson e Kubrick che nei momenti di pausa giocavano a lanciarsi una palla da baseball da un lato all’altro dell’enorme Sala Colorado. Immaginateveli, forza. Delizioso, no? 

I pompieri accorsi per domare l’incendio che si era scatenato una notte in uno dei teatri di posa, entrano di corsa dentro l’Overlook Hotel e attaccano le manichette agli idranti che vedono lungo i corridoi. Dopo un momento di panico perché non esce acqua, gli viene detto di lasciarli perdere perché sono finti. L’ironia dell’estremo realismo kubrickiano. 

Esisteva una scena in cui Jack faceva vedere lo scrapbook a Wendy, seduti sul divano della Sala Colorado. Ho così scoperto perché, in quella foto che avevo trovato nel garage di Emilio, c’era lo scrapbook sul tavolino da fumo. Emilio e il montatore Ray Lovejoy si erano seduti dove poco prima c’erano stati Jack e Shelley. Anche il pacchetto di Marlboro è quello di Jack Torrance. 

THE END…?

Quarto libro nella serie di volumi Taschen, Stanley Kubrick’s The Shining è anche il migliore, quello che presta meno il fianco alla gadgettistica e che sfrutta tutto lo spazio a disposizione per offrire contenuti d’interesse vero, tanto per appassionati che per studiosi. C’è contemporaneamente troppo e troppo poco, come è sempre stato per tutti i libri Taschen, e probabilmente nulla che possa sconvolgere il lettore con qualche rivelazione inaudita. Ma forse sono io, che ormai ne so a pacchi. Forse ha ragione Spielberg quando scrive nella prefazione che “tutti devono leggere questo libro, e poi rivedere Shining, non importa se l’avete già visto 50 volte. Nulla sarà più come prima.” Secondo me esagera, ma fatemi sapere una volta che l’avrete letto anche voi. 

E appunto, chiudo con la domanda sulla bocca di tutti. Quando uscirà la versione economica del libro per coloro che non vogliono o non possono spendere 1.500€ per questa edizione da collezionisti? Lee sta cercando di pressare la Taschen affinché non passino più di sei mesi. Poiché sarà necessario un lavoro di re-impaginazione del testo per fondere il libro-cronistoria e l’album di fotografie e magari pure i memorabilia, io sarei più cauto e punterei a un annetto. 

Nel frattempo, sono a vostra disposizione per domande e curiosità. Lee mi ha detto che sono una delle poche persone al mondo ad aver già letto l'intero libro. Approfittatene. 

08 febbraio 2023

Il fallimento di A.I. Intelligenza Artificiale

L'ultima puntata della serie Cracking the Kube è un approfondimento su uno specifico progetto lasciato incompiuto da Stanley Kubrick: il film di fantascienza A.I. Intelligenza Artificiale

Nel secondo episodio della serie avevo accennato a come l'impresa di adattare il racconto breve di Brian Aldiss "Supergiocattoli Che Durano Tutta L'Estate" avesse occupato Kubrick per quasi vent'anni, dal 1976 ai primi anni '90. Super-Toys, dal titolo originale della storia, era infatti uno dei "progetti prediletti" a cui Kubrick tornava subito dopo aver concluso uno dei suoi film.

In questo sesto episodio, ripercorro questi venti anni di tentativi fornendo un resoconto per la prima volta completo dell'intera impresa

Oltre al materiale consultato al Kubrick Archive di Londra, ho completato la ricerca visitando l'Università di Liverpool dove sono custodite alcune delle carte di Aldiss, e ho fatto uso del materiale proveniente dalla Collezione Arthur Clarke dello Smithsonian di Washington. Soprattutto però, questo studio beneficia dell'accesso esclusivo che lo scrittore Ian Watson mi ha concesso al suo archivio personale

Nel luglio del 2017 ho incontrato Ian nella sua casa in Spagna e ho fotografato le pagine che scrisse e spedì via fax a Kubrick giorno per giorno nel corso del 1990, i suoi quaderni con gli appunti presi durante gli incontri e le telefonate col regista, e i libri annotati che consultò per il progetto. Qui di fianco una foto di tutto il materiale, con mappamondo decorativo e il mio vecchio MacBook Pro.

Nei pomeriggi di quella memorabile settimana, Ian mi ha raccontato la sua esperienza con Kubrick e ha risposto a dozzine e dozzine di domande. 

Siccome mi piace tenere le statistiche, posso dirvi che Ian Watson ha scritto 234.000 parole per Kubrick (Guerra e Pace di Tolstoj è più corto) e insieme abbiamo registrato 12 ore e 23 minuti di conversazione. Sono poi tornato da Ian nel novembre del 2019 per un nuovo giro di interviste, con le domande nate dalla lettura di tutto il suo materiale: altre 17 ore e 14 minuti di registrazione. 

Sapete qual è la cosa sorprendente? Che questo di Ian Watson non è che un tassello del mosaico rappresentato dalla storia di A.I. Altrettanto materiale è stato scritto da Brian Aldiss, da Bob Shaw, da Arthur Clarke, da Sara Maitland e da Kubrick stesso. Riuscite a vedere ora la mole di questo progetto-monstre

Per orientarvi un po' meglio, guardate l'episodio. Alla fine della cronistoria, propongo una spiegazione sul perché questo progetto è rimasto incompiuto – oltre all'ovvia ragione che Kubrick è morto, s'intende. Secondo me, ed è un punto piuttosto controverso su cui mi piacerebbe sapere la vostra, Kubrick non avrebbe mai fatto A.I., nemmeno fosse campato altri dieci anni. Ascoltate la mia teoria nell'ultima parte dell'episodio. 

Buona visione, attivate i sottotitoli in italiano, e come sempre grazie del tempo che mi dedicate. 

23 gennaio 2023

Cosa si cela dietro Eyes Wide Shut

Nel luglio 1999 quando Eyes Wide Shut uscì nelle sale americane causò, come sempre succedeva con un film di Kubrick, reazioni molto polarizzate. Ma anche quelli a cui non era piaciuto erano pronti a sostenere che il film appariva come un'opera molto personale per il regista, se non quella più personale in assoluto. 

Nessuno però sapeva spiegare il perché. 

Andando ad analizzare alcune scene chiave del film e soprattutto intervistando testimoni che conoscevano molto bene Kubrick, nella quinta puntata della serie Cracking the Kube cerco di dare io una risposta. 

Eyes Wide Shut è "il film di gelosia" di Kubrick, un tipo di film che il regista voleva realizzare fin dai suoi esordi. L'annuncio per un film tratto da Doppio Sogno di Schnitzler risale agli inizi degli anni '70, ma l'interesse di Kubrick per questa novella era già nato nella metà degli anni '50. Perfino prima, anzi: ho scoperto di recente al Kubrick Archive consultando i suoi scritti giovanili che gran parte delle storie che pensava di girare trattavano di matrimoni in crisi, tradimenti, mogli fedifraghe e mariti libertini. 

Come mai – viene quindi da chiedersi – Kubrick era così attratto da storie di infedeltà coniugale? La risposta me l'ha data Gerry Fried, il compositore delle colonne sonore dei primi film e uno dei migliori amici di Kubrick durante gli anni al Greenwich Village, con cui ho chiacchierato a lungo del giovane Kubrick. 

Questo episodio è forse il mio preferito dell'intera serie, in parte perché lo studio su Eyes Wide Shut è il più recente che ho fatto. L'avevo preparato per una conferenza tenutasi all'Università delle Arti di Londra nel dicembre 2019. Dovrebbe essere pubblicato alla fine di quest'anno in una versione estesa in un libro accademico a cura di Nathan Abrams e Georgina Orgill, intitolato Eyes Wide Shut: Behind Stanley Kubrick's Masterpiece. Seguitemi per gli aggiornamenti sulla data di uscita.  

16 gennaio 2023

L'Arancia dello Scandalo: Burgess contro Kubrick

Quando uscì Arancia Meccanica, Anthony Burgess si disse "deliziato" dal film di Kubrick: "è il miglior adattamento di un romanzo che abbia mai visto." Qualche mese dopo lo scrittore stupì tutti proclamando invece che il film era "un capovolgimento delle mie intenzioni." 

Per i successivi venti anni, Burgess non smise mai di lamentarsi del successo di Arancia Meccanica, esasperando perfino Kubrick tanto da fargli dire che avrebbe voluto che "Burgess la piantasse di fare lo stronzo." 

A prima vista sembrerebbe il classico screzio tra regista e scrittore: il primo che si prende troppe libertà nell'adattare un'opera letteraria per il cinema, il secondo che se ne lamenta e si sente depredato della propria creatività. Ma non è affatto così.

Avete di fronte voi un viaggio dentro la tortuosa psiche di Burgess, un autore che col tempo finì per detestare la sua più famosa creazione letteraria. Oppure – di nuovo – non è così. Autore incontenibile, contraddittorio, inevitabilmente polemico, Anthony Burgess sfugge a ogni chiara analisi. Godetevi questa furibonda cavalcata tra le sfuriate burgessiane nel quarto episodio di Cracking the Kube.



La lezione deriva da un intervento che avevo preparato per la conferenza A Clockwork Symposium tenuta al London College of Communication nel Novembre 2018. 

Il materiale, largamente ampliato grazie a una visita alla International Anthony Burgess Foundation a Manchester, è alla base di un mio saggio, pubblicato questo mese in apertura del libro Anthony Burgess, Stanley Kubrick and A Clockwork Orange, a cura di Matthew Melia, professore della Kingston University, e Georgina Orgill, capo archivista del Kubrick Archive. 

Per chi fosse appassionato degli screzi tra registi e romanzieri, segnalo il saggio gemello King vs. Kubrick: The Origins of Evil dove ripercorro il quarantennale odio di Stephen King per il film che Kubrick ha tratto da Shining e ne spiego le origini, attingendo dal passato di alcolismo e violenza repressa di King. Buona visione e buona lettura. 
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