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25 luglio 2013

Stanley Kubrick at Look magazine, di Philippe Mather: recensione

Per la prima volta, dopo numerosi libri-clone e mostre discutibili, gli anni da fotoreporter di Stanley Kubrick trovano una appropriata analisi nel saggio di Philippe Mater "Stanley Kubrick at Look magazine", pubblicato negli Stati Uniti lo scorso febbraio e disponibile anche in edizione digitale.

La tesi di base del saggio è che l'apprendistato alla rivista Look sia stato un fattore decisivo nel formare la personalità artistica di Stanley Kubrick: poiché il regista non ha ricevuto un'educazione formale in nessuna scuola d'arti figurative, gli anni da fotoreporter sono stati l'equivalente di un corso al college.

L'aspetto migliore di questa impostazione è quanto essa si distanzi dalle ricerche condotte fino ad oggi sulle fotografie di Look, principalmente dal gruppo tedesco Iccarus capitanato da Reiner Crone responsabile di svariati libri sull'argomento (Still moving pictures, Drama and Shadows, Fotografie 1945-1950) e curatore della mostra itinerante che ha toccato anche il nostro paese e che attualmente è a Genova.

Il giochino tipico di Crone è dire "questa foto anticipa l'inquadratura di questo film" oppure interpretare gli scatti kubrickiani come diretta preparazione ai successivi film, spingendosi fino a definirli storyboard immaginari. Oltre all'evidente sterilità, un discorso del genere pone l'enfasi sul fotografo come autore assoluto, una concezione romantica della creazione artistica che, se già scialba di per sé, nel caso del Kubrick fotoreporter è ancor più lontana dalla realtà: le sue fotografie sono sempre state scatti su commissione pensati per essere abbinati a un testo redazionale, quanto di più lontano si possa immaginare dallo scatto fotografico d'autore.

Con mia grande soddisfazione, Mather contesta fermamente l'approccio di Crone: non va in cerca di capolavori perduti del giovane regista in fieri, né isola singoli scatti su cui applicare criteri di analisi estetica; soprattutto non parte dal presupposto che la rivista abbia "rovinato" l'apporto artistico del genio innato di Kubrick selezionando solo pochi scatti tra le dozzine di provini immortalati dall'artista.

Mather intende al contrario esaminare le fotografie realizzate da Kubrick proprio in funzione della missione di Look, necessariamente abbracciata da Kubrick in quanto dipendente a contratto: una rivista che voleva informare e intrattenere i propri lettori con servizi di varia origine, curiosi, stimolanti, ben realizzati e d'impatto. Mather suggerisce che proprio questa missione esplicitamente assegnata ai fotoreporter possa esser stata l'embrione da cui si è sviluppata l'intenzione di Kubrick di realizzare film intelligenti e personali ma assolutamente fruibili dal grande pubblico.

Dice lo stesso Philippe Mather nell'introduzione:
Gli studi precedenti hanno generato l'idea che la voce artistica di Kubrick fosse già pienamente formata e che abbia semplicemente trovato espressione prima nel medium fotografico e poi in quello cinematografico. Questo studio afferma esattamente l'opposto, ossia che l'identità di Kubrick come persona creativa è stata il risultato di un processo, che è emersa gradualmente mentre si integrava con una serie di influenze complesse localizzate in un contesto specifico, sia culturale che storico.
Questo approccio ispirato dalla sociologia di produzione considera primariamente il lavoro del fotoreporter come sforzo collettivo che ha luogo in un contesto aziendale o d'industria, plasmato in modo tanto implicito quanto pesante dalla routine lavorativa della quotidianità del posto di lavoro.

Mather non manca di considerare una serie di ulteriori fattori in gioco quali la rivalità di Look contro la concorrente Life, l'evoluzione della tecnologia fotografica, il clima artistico, economico e ideologico della New York dell'immediato dopoguerra e il fascino che i media visivi popolari dell'epoca avevano sugli adolescenti, dai fumetti ai fotoromanzi ai film di genere.

Ne risulta un ritratto lavorativo del giovane Stanley Kubrick davvero incisivo e interessante, a tratti perfino più vivido di quello che era riuscito a fare LoBrutto nei capitoli iniziali della sua mastodontica biografia.

Capitolo dopo capitolo, analizzando i servizi fotografici di Kubrick e quelli dei colleghi che hanno lavorato a Look negli stessi anni, Mather può provare con ragionevole plausibilità che la messinscena dei film di Kubrick, soprattutto i primi, non è frutto di un suo gusto personale generatosi dal nulla ma deriva proprio dallo stile foto-giornalistico dell'America del dopoguerra che Kubrick ha imparato lavorando alla rivista: si tratta degli elementi comuni sempre presenti nei servizi fotografici, come una profondità di campo elevata e una disposizione quasi geometrica degli elementi in scena, che siano persone o oggetti.

Con un pizzico di entusiasmo, si potrebbe perfino giudicare questa intuizione come una vera illuminazione sull'estetica kubrickiana.

Altrettanto interessante è la critica ai critici kubrickiani che hanno sempre definito il cinema di Stanley Kubrick come poco realistico, simbolico, talvolta in forza della sua citazione "real is good interesting is better". Mather non smette mai di sottolineare, al contrario, facendo uso sia di interviste a Kubrick stesso (mai sufficientemente lette da chi scrive libri sul suo cinema) sia di analisi di servizi fotografici, quanto l'opera di Kubrick – tanto fotografica che cinematografica – abbia sempre una base di accurato quasi maniacale realismo. Pur nel passaggio dalla registrazione più o meno oggettiva di fatti con le fotografie e i documentari alla finzione narrativa dei film successivi, non viene mai meno un'attitudine al reale che si è originata a Look e che a sua volta era parte dell'estetica del fotogiornalismo americano degli anni '40.

Quando, a proposito dei suoi film meno realistici, Shining e 2001: Odissea nello Spazio, Kubrick parlerà di quanto sia indispensabile una cornice di realtà affinché il pubblico possa credere alle parti fantastiche della storia, citerà quasi parola per parola il manuale del fotografo di Look distribuito ai dipendenti in cui si chiede al fotoreporter di agevolare la comprensione e l'immedesimazione da parte del lettore grazie a immagini realistiche, facili da leggere, non fagocitate dall'eccessivo estro creativo della così detta fotografia d'autore.

Non è anche questa una scoperta di ragguardevole peso? In quali altri libri potete dire di aver trovato idee che vi abbiano fatto ripensare all'intero cinema di Kubrick obbligandovi a metterne in discussione gli aspetti ritenuti ormai ovvi?

Il saggio risente purtroppo della mancanza di un adeguato apparato iconografico: pochissime fotografie costringono Mather a lunghe e sostanzialmente inefficaci descrizioni degli scatti di Kubrick; se ne lamenta lo stesso autore nelle appendici quando ammette che le intricate questioni di copyright gli hanno impedito di abbinare al lavoro scritto un sito internet con la riproduzione dei servizi pubblicati sulla rivista. Partecipo volentieri della sua frustrazione, ma sono pronto a ribadire che nonostante questo il suo lavoro è intelligente, approfondito, illuminante e scritto con chiarezza, insomma un lavoro di tutto rispetto, sia preso di per sé sia – e soprattutto – confrontato con la media dei saggi sull'opera di Kubrick. Bravo.

21 luglio 2013

Fear and Desire doppiato: recensione

Ieri sera ho avuto modo di vedere Fear and Desire, doppiato in italiano da Minerva Pictures, in anteprima alla proiezione di mezzanotte nell'ambito di Capalbio Cinema.


Il doppiaggio è dignitoso. Certo, i quattro doppiatori risultano a tratti un po' enfatici, ma chi non lo sarebbe recitando le battute di quel copione? Nessuna delle voci mi è risultata fuori personaggio. Meno buono il lavoro sul mix: piuttosto di frequente, all'inizio dei blocchi doppiati in italiano, si avverte un brusco abbassamento del livello del suono d'ambiente e in alcune scene un notevole impoverimento dell'ambiente sonoro. Presumo che non avendo a disposizione una colonna internazionale sia stato piuttosto complicato eliminare le battute inglesi mantenendo il resto del sonoro; immagino anche che un budget non particolarmente elevato abbia limitato la precisione e la raffinatezza di questo lavoro comunque improbo. (Sono costretto a fare supposizioni perché non mi è stato possibile reperire alcuna informazione in merito, neanche il nome dei doppiatori.)

L'aspetto migliore di questa operazione della Minerva Pictures, ed è uno dei motivi principali del mio appoggio alla pratica del doppiaggio, è di averci restituito Fear and Desire come semplice film: depurato dall'aspetto esotico di film introvabile – contrabbandato per anni dalla setta dei kubrickiani e visto sempre con atteggiamento clandestino anche nelle versioni home video più o meno regolarmente messe in commercio – oggi Fear and Desire di Stanley Kubrick è finalmente un film come tutti gli altri: la qualità dell'immagine è pari a quella di qualsiasi film in sala e il doppiaggio lo parifica con qualsiasi altro film distribuito comunemente in Italia.

Possiamo quindi dopo tanto tempo guardare Fear and Desire senza esser distratti dai sottotitoli, assorbendo immagini e suoni, dialoghi e musica, dimenticandoci il più possibile della sua storia travagliata e delle future gesta del suo regista, e concentrandoci sul racconto dei quattro soldati precipitati in territorio nemico; possiamo insomma guardarlo non come reperto potenzialmente rivelatore del Kubrick che era e che verrà e nemmeno come curiosità da cinefili spinti, ma semplicemente e finalmente possiamo guardare questo film – e dire che è brutto.

Fear and Desire è noioso, incredibilmente pretenzioso, fastidiosamente lungo nonostante duri poco più di un'ora, claudicante nella struttura narrativa, scombinato, pessimamente recitato e diretto in maniera pedestre – davvero sembra di citare Kubrick stesso nei suoi numerosi insulti al film, perché sono tutti verissimi.

Anche la tanto decantata qualità tecnica, principalmente fotografica, passa assolutamente in secondo piano di fronte all'imbarazzante fallimento di ogni altro ingrediente.

La colpa non è solo del pomposo script di Howard Sackler, che comunque resta un polpettone indigeribile di roboante ostentazione poetica, ma anche di Kubrick come regista: infatuato dal nascente amore per il mezzo, Kubrick si è preoccupato solo della fotografia e del montaggio, realizzando molto bene la prima ma esagerando col secondo tanto da infarcire il film di tagli rapidi che disperatamente tentano di dar ritmo alle scene ma risultano gratuiti e sciocchi, e di manierismi che distraggono implacabilmente dal racconto.

E' davvero difficile conciliare questa gestione inefficace del mezzo con quello che mirabilmente Kubrick aveva fatto l'anno precedente col notevole corto d'esordio Day of the Fight, dove riusciva a creare e mantenere un'oppressiva tensione drammaturgica con economia e precisione, e quello che otterrà tre anni dopo con Killer's Kiss, un'ugualmente esile opera giovanile ma ben calibrata ed efficace sotto ogni punto di vista.

L'errore registico di Kubrick in Fear and Desire risiede anche nella scelta e direzione degli attori: il quartetto di protagonisti è quanto di più male assortito si possa concepire, spaziando dalla recitazione nervosamente sopra le righe di origine teatrale di Paul Mazursky alla fissità da bello senz'anima di Kenneth Harp, dalla rudezza sbrigativa di Frank Silvera (comunque l'unico con un po' di mestiere, e si vede) allo sguardo perennemente ebete di Stephen Coit, per non parlare poi della totale e sconvolgente inespressività di Virginia Leith. Doveva davvero essere innamorato follemente della tecnica cinematografica, il nostro, per non accorgersi di quanto improbabile fosse il suo cast e di quanto male sia stato diretto – se è stato diretto; giusto per dire, Silvera darà poco dopo una caratterizzazione del tutto convincente del cattivo di Killer's Kiss.

Soprattutto Fear and Desire dimostra un'incapacità di gestione del racconto e del ritmo narrativo davvero sconcertante: digressioni paludose dove la storia arranca, lunghe sequenze di dialoghi assolutamente superflui che sembrano esser rimaste solo per garantire al film la durata minima da lungometraggio, e improvvise accelerazioni nervose che tentano di creare un ritmo da thriller ma risultano solo frettolose e sconclusionate.

C'erano state negli anni interpretazioni anche convincenti sul perché Kubrick avesse così duramente osteggiato questo suo primo sforzo produttivo e registico – la più interessante resta quella di Paolo Cherchi Usai che vedeva nel film una manifestazione troppo evidente di temi e stili di tutto il suo cinema a venire, un entusiasmo giovanile che si lasciava travolgere dalla passione e dall'inesperienza mancando della misura e del carattere indiretto necessario a ogni opera d'arte – ma forse semplicemente Kubrick, col senno e la maturità di poi, si vergognava di aver fatto un gran brutto film.

A vedere Fear and Desire oggi, se non stupisce per niente l'accanimento del suo autore nel tentare di farlo scomparire dalla faccia della terra, sorprendono invece, e tantissimo, le recensioni tendenzialmente favorevoli all'uscita nelle sale di New York. Dovevano esserci davvero film orribili nelle sale americane di quegli anni.

Fear and Desire è doppiato e distribuito da Minerva Pictures e QMI, in collaborazione con Panorama, Radio DeeJay e Coming Soon; nelle sale italiane dal 29 al 31 luglio e successivamente in home video; per informazioni sulle sale in cui verrà proiettato consultare il sito Kubrick al cinema.

18 luglio 2013

Peter Sellers su Clare Quilty

Peter Sellers: A Celebration, una delle innumerevoli biografie dedicate all'attore comico inglese scritta da Adrian Rigelsford nel 1997, contiene una dichiarazione di Sellers che non avevo mai letto prima.

Interrogato spesso sulla genesi del personaggio del Dr. Stranamore, Peter Sellers ha al contrario parlato raramente del suo lavoro svolto per la nascita di Clare Quilty, memorabile invenzione di Vladimir Nabokov nel suo Lolita: nemesi surreale di Humbert Humbert nel romanzo, nel film di Kubrick Quilty viene estremizzato da Peter Sellers fino ad approdare a una caratterizzazione grottesca e funambolica.

Come sempre con Sellers, la chiave per la definizione di un personaggio partiva dalla scoperta della voce.
Stanley voleva che parlassi con un accento di New York. Mi disse: "Senti, un mio amico che fa l'impresario di musica jazz, Norman Ganz, ha una voce davvero perfetta." Mise su una cassetta, ed era pazzesco. C'era questa voce, che parlava a volume troppo alto e diceva con la lisca, "Ehi Stanley, sono Norman. Dio santo, questo è un copione intero, per l'amor del cielo, dico, certo che chiedi delle cose ben strane tu." E poi sentivi un po' di pagine che venivano girate e Norman che iniziava a leggere il copione di Lolita. Ed ecco da dove nacque Quilty.
Era un personaggio fantastico, da incubo: in parte omosessuale, in parte tossicodipendente, in parte sadico, in parte masochista, in parte qualsiasi cosa depravata e malata che ti venisse in mente. Era contemporaneamente orribile e divertente. Non ho mai incontrato nessuno come lui nella realtà, così ho dovuto immaginarmelo, costruire un'idea immaginaria di come una persona del genere potesse essere. Quando mi sono visto sullo schermo ho pensato, ecco qua, stavolta hai esagerato, nessuno crederà al tuo personaggio. Ma poi quando ero negli Stati Uniti mi sono davvero imbattuto in un paio di persone che avrebbero davvero potuto fare da modello per il personaggio e allora ho cominciato a pensare, beh, dopotutto non avevi poi esagerato così tanto.

01 luglio 2013

I titoli di coda blu di Shining

Sollecitato da una domanda sul Reddit di Stanley Kubrick, mi è tornato in mente che anni fa avevo comprato una VHS di Shining su eBay perché si diceva che avesse i titoli di coda del film in blu come quelli di testa.

In effetti è vero: la prima edizione in video del film, datata 1981 e che vedete qui di lato, ha questa variante; tutte le altre edizioni home-video del film, dalle successive VHS, ai Laserdisc fino ai DVD e Blu-ray, hanno i titoli di coda nel canonico bianco su sfondo nero.

Feci anche un rip, che poi è finito dimenticato nelle mie cartelle e che ho caricato su YouTube solo ieri. Pessima qualità, ma è roba degli anni in cui si lavorava con le miniDV e i codec erano quel che erano...



Sarebbe interessante sapere perché: si tratta di un errore? Di una variante approvata da Kubrick? Ma soprattutto: di che colore erano i titoli di coda del film quando Shining debuttò nelle sale nel maggio 1980?

L'edizione, per chi avesse uno spazio vuoto sulle mensole di casa da riempire, si trova di rado su eBay.
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